Nel 325 a.C. l’avanzata verso oriente del condottiero Alessandro III di Macedonia detto il Magno si arena sulle rive del fiume Beas, appena entro la piana dell’Indo. Si dice che il generale puntasse alle sette città chiamate Dilli tra il fiume Yamuna e il Gange, conquista che gli avrebbe aperto le porte del subcontinente indiano. Dopo mesi di battaglie vittoriose ma cruente i suoi uomini lo convinsero a desistere dallo scontro frontale con la coalizione dei regni indiani: troppo lontani da Babilonia per ricevere aiuto in caso di necessità e troppo imponenti quei bestioni con la proboscide bardati a guerra dagli eserciti indigeni. Due anni dopo Alessandro morì e non sapremo mai se, potendo riorganizzare il proprio esercito, sarebbe riuscito infine a conquistare almeno il nord dell’India. Ma forse è proprio di indeterminatezze che si nutre il mito. Le note dei cronisti dell’epoca si sfilacciano, sfumano tra gli incerti vapori del tempo, sublimano nella leggenda di un mondo fantastico, sfiorato ma mai agguantato davvero, oltre le Porte di Alessandro che da allora, secondo gli antichi, tengono chiuse laggiù, nell’oriente misterioso, orde di popoli ed esseri terrifici. La brama degli europei, i loro sogni e i loro incubi più reconditi trovano da allora un fertile humus in questa parte di mondo e coagulano in leggende che talvolta si ammantano persino di grottesco.
Verso la fine del XII secolo comincia a circolare in Europa una fantomatica “Lettera del Prete Gianni” sedicente discendente dei Re Magi nonché Re dell’India. In questa missiva – della quale in realtà ne circoleranno parecchie versioni – sono descritte con dovizia tutta una serie di mirabolanti fenomeni che caratterizzerebbero il suo Regno, dai fiumi di topazi e smeraldi che scendono dal Paradiso ai cannibali, confinati in zone remote e che il Prete scatena all’occorrenza contro i suoi nemici. Per quasi tutto il medioevo in Europa attenderanno fiduciosi l’arrivo dell’esercito del Prete Gianni dall’India che avrebbe liberato l’occidente dal pericolo musulmano o mongolo e gli avrebbe schiuso le meraviglie del suo Regno. Solo a inizio XIX secolo l’uomo bianco, con la conquista da parte della Compagnia delle Indie Orientali, riuscirà a penetrare stabilmente tra il Tibet e l’Oceano Indiano confrontandosi direttamente con una cultura plurimillenaria, poliedrica e quasi incomprensibile per la mentalità illuministico-positivista degli europei. Al di là dei proficui affari commerciali e del fondale vagamente modernizzatore che l’amministrazione vittoriana riesce a innalzare in un territorio vasto come un continente, vi è un mondo misterioso e profondo comunque percepito da tutti ma dal quale quasi tutti stanno alla larga. Solo pochi intelletti lucidi, aperti e curiosi riescono a codificare, seppur vagamente e senza mai perdere i riferimenti occidentali, un universo dove fede, misticismo e fanatismo si confondono e si scambiano spesso i ruoli come in una pièce da teatro di strada.
Delhi, sulle rive del fiume Yamuna, è uno dei siti più a lungo abitati, da almeno 5000 anni, primato che poche città al mondo possono vantare. Sorge su una vasta pianura tra l’Indo e il Gange – la Terra dei Sette Fiumi in cui giunse da nord il mitico popolo degli Arii – evidentemente fertile non solo per l’agricoltura visto che può essere considerata la culla geografica del misticismo indiano. Vi furono edificate in tempi diversi da quattro a sette città, non si sa bene con certezza, dalle quali emerse questo nome, Dilli, il cui etimo potrebbe evocare un conquistatore del I secolo a.C. (Raja Dillu) o più semplicemente l’espressione “regione”. Da secoli è considerata città chiave per il possesso dell’India, collocata tra Medioriente a ovest, Tibet a nord, subcontinente a sud e area del riso a est; rasa al suolo più e più volte, dal 1200 al 1500 fu capitale del SuItanato Mamelucco – dinastia che importò l’Islam in India – e dell’Impero Moghul, dal 1526 al 1806, che unificò l’intero subcontinente, parte del Pakistan e del sudest asiatico. Sotto l’Impero Moghul (termine che deriva da “mongolo”, essendo i primi imperatori diretti discendenti di Gengis khan e Timur Lang Tamerlano) il PIL di quest’area del globo raggiunse il 25% del totale mondiale, e nonostante fosse l’Islam la religione ufficiale venne portato avanti una sorta di sincretismo fra le varie fedi del Paese al fine di raggiungere una certa stabilità fra le sfaccettate componenti della società del tempo. Il sincretismo politico-religioso perseguito dagli imperatori Moghul si tradusse nelle più celebri architetture indiane d’ogni tempo come la “Jama Masjid” di Delhi, una delle più grandi moschee del mondo, il Forte Rosso, gigantesca cittadella fortificata del Gran Moghul sempre a Delhi e il Taj Mahal tempio funerario del XVII secolo ad Agra, 250 km a sudest della capitale.
Con l’arrivo dei britannici a inizio XIX secolo Delhi viene messa in ombra da Calcutta, città proiettata verso il sudest asiatico e di maggior importanza strategica, e diviene una sorta di illusorio contrappeso dei rajà locali al potere politico inglese. Ma l’amministrazione anglosassone, proprio per la contemporanea presenza di potenti signori locali che continuano ad avere un certo ascendente politico, investe in formazione di quadri burocratici anche fra i giovani indiani e a sorpresa, a fine ‘800 decide di spostare la capitale dell’Impero da Calcutta nuovamente a Delhi. E’ di questi anni la realizzazione di Nuova Delhi, mega quartiere progettato da sir Edward Lutyens, architetto e urbanista, che sulla falsariga del Piano Haussman per Parigi, del Plan Cerdà per Barcellona e di Heliopolis per Il Cairo – tutte creazioni più o meno coeve – disegna una città per 200.000 abitanti su una griglia di viali ortogonali, scenografiche prospettive e quartieri salubri destinati a ospitare i quadri dirigenti dell’amministrazione del governo coloniale. Si vennero così a formare due Delhi, una Vecchia a nord caratterizzata da strade e quartieri affastellati come una casbah e dal carattere estremamente popolare e una Nuova a sudovest, salubre, spaziosa e monumentale, esclusiva per le classi dirigenti. Al volgere del XIX secolo nel suo insieme la città contava 400.000 abitanti circa, che divennero pochi di più, 700.000, nel 1947, anno dell’Indipendenza indiana, segno che durante il periodo coloniale il peso economico delle grandi città sulla costa – Bombay e Calcutta – continuava a sovrastare quello politico.
Dagli sconvolgimenti del 1947 – anno dell’indipendenza indiana – comincia invece l’ascesa demografica di Delhi. Con la proclamazione della capitale nella quartiere giardino di Lutyens e la contemporanea proclamazione dell’indipendenza pakistana accorrono in città centinaia di migliaia di indù, costretti con le buone o con le cattive ad abbandonare il vicino Stato musulmano. Nel 1951 Delhi raddoppia i propri abitanti che continueranno a crescere a causa di imponenti migrazioni interne che muovono verso le i centri maggiori milioni di diseredati dalle campagne alla ricerca di una qualche forma di futuro all’ombra dei palazzi del potere. Questa crescita vertiginosa avrebbe messo in crisi qualunque Paese, ancor di più una realtà sostanzialmente da terzo mondo, dove non si riuscì ad affiancarle un corrispondente sviluppo urbanistico e infrastrutturale della medesima portata. Oggi Delhi conta 31 milioni di abitanti e dalla fine del XX secolo i vari governi indiani succedutisi stanno cercando di risolvere gli enormi problemi che comporta un tale sovraffollamento e affastellamento di universi paralleli. Perché della caotica e contraddittoria India del XXI secolo Delhi è specchio e microcosmo dalle multiformi esistenze. Quelle esistenze a volte crude, provenienti da chissà quale dimensione, impastate a miseria, fede e high tech, che sembrano preludere a un futuro prossimo distopico se osservato coi nostri occhi, “passivamente accettabile” se guardato col disincanto di chi è cresciuto nella cultura del samsara. Novanta chilometri di megalopoli adagiati sul il fiume Yamuna, il più grande affluente del Gange considerato sacro anch’esso, monumenti epocali, a volte contrapposti, che raccontano la storia di un luogo bramato e conteso, un tasso di inquinamento spesso fra i più alti del mondo al punto che in certi giorni è quasi impossibile distinguere il giorno dalla notte, il 35% dei quartieri quasi privi dei più elementari servizi come l’acqua, le fognature, le stesse case, un vera e propria collina dei rifiuti alta 80 metri al limitare dei sobborghi di nordest che di tanto in tanto, durante la stagione monsonica, smotta e travolge le baracche dei diseredati che sopravvivono scavando ai suoi piedi, i fuochi continui ove si bruciano giorno e notte migliaia di tonnellate di immondizie, responsabili più degli scarichi delle auto dell’aria irrespirabile, i continui reflui civili e industriali giù nel fiume che uccidono ogni forma di vita esistente pur costituendo, il tratto in cui lo Yamuna attraversa Delhi, solamente il 3% del suo intero corso.
Eppure la città è attrezzata con undici linee di metropolitana – inaugurata nel 2002 – ogni stazione effettua la raccolta dell’acqua piovana, i treni utilizzati sfruttano un sistema di frenatura a risparmio energetico, la costruzione delle stazioni ha indotto il governo a migliorare le infrastrutture e l’edilizia popolare attorno ad esse e la presenza in città di una forte componente di Information Technology indiano induce equipe di studiosi a inventare e proporre nuove soluzioni per razionalizzare consumi e gestione dei rifiuti. Per le strade la vita fluisce indifferente, caotica e variopinta rappresentazione degli eccessi e delle esasperazioni indiane. Fasci di fili elettrici che corrono aggrovigliati lungo le vie, disseminate di negozi di telefonia o di cibarie esposte “en plen air” a mosche, gas di scarico e intemperie, imponenti spianate che convergono su celebrativi Archi di Trionfo, folle di auto, scooter e motocicli che sfiorano folle di uomini, donne e bambini spesso assorti sui loro smartphone. L’universo occidentale a Delhi, funzionale, luccicante e patinato delle facciate strutturali dei grattacieli è solo una scorza illusoria sotto la quale sta la polpa e l’essenza della vera città, sospesa fra il panteismo induista, il monoteismo islamico e il nuovo culto del terzo millennio, la fluida, asettica, ineffabile società digitale.