Sono poche le persone che incontriamo nella vita in grado di colpirci per intelligenza e compostezza, per non dire senso di misura ed equilibrio, quindi umiltà. Clelio Darida era un uomo colto, dotato di grande intuito, deciso nelle battaglie politiche, solerte e concreto nell’impegno amministrativo. Ha fatto il sindaco di Roma in tutta la prima parte degli anni settanta e poteva farlo, per il PCI guidato allora da Luigi Petroselli, anche dopo il sopravvento della sinistra alle amministrative del 1976. Invece, tanto ai vertici della Chiesa quanto ai vertici della Dc, con la vittoria del PCI e l’elezione di Giulio Carlo Argan a sindaco, venne meno la possibilità di un governo cittadino tra democristiani e comunisti, con la prosecuzione e il rafforzamento della esperienza incarnata da Darida negli ultimi anni del suo mandato (monocolore Dc con l’appoggio esterno anche dei comunisti). Era impraticabile, in Campidoglio, una soluzione in stile “compromesso storico”, con i due grandi partiti di massa nella stessa giunta.
Fece bene il sindaco, affrontando ad esempio con determinazione il problema delle baraccopoli (una vergogna insopportabile per la capitale). In anni difficili per gli enti locali, prima cioè che si risanassero dall’alto i bilanci comunali, spostando con i decreti Stammati l’indebitamento dalle casse municipali all’erario, Darida riuscì nell’impresa di mobilitare risorse finanziarie importanti, anche con il ricorso massiccio alla Cassa Depositi e Prestiti, per aggredire le varie emergenze della città. Ebbe il coraggio di andare senza scorta dei vigili urbani al Borghetto Prenestino, dando in questo modo l’idea di un sindaco e di un’amministrazione che accettava il confronto con la popolazione più bisognosa, specie nelle periferie degradate.
Di fronte al convegno ecclesiale sui “Mali di Roma”, nel febbraio del 1974, mantenne un atteggiamento di apertura verso le nuove istanze del cattolicesimo romano. Già negli anni ’60, Darida e gli uomini della sua corrente intrecciarono rapporti fecondi con il giovane clero – tra cui si profilava la figura emergente di don Luigi Di Liegro – con l’obiettivo di animare una politica di progresso e di equità, ispirata ai valori cristiani, nel vivo della realtà popolare di Roma. In effetti, nella Democrazia cristiana, il gruppo degli amici di Fanfani costituì fin già dalla seconda metà degli anni ’50 un pungolo per il rinnovamento del partito e il coagulo di tutte le forze di nostra all’interno del partito scudo crociato.
È stato, quindi, un grande amministratore – anche presidente dell’Anci – ma volle riconoscere la palma del miglior sindaco al compagno di partito, tanto alleato quanto avversario, a seconda dei diversi cicli politici, Amerigo Petrucci. In realtà, con il dovuto distacco storico, tutt’e due assieme possono essere annoverati tra le figure più importanti e significative della vita politica e amministrativa romana del Novecento. Furono due grandi sindaci, pur con stili e qualità differenti. Senza di loro, la prima esperienza amministrativa del centro-sinistra non avrebbe messo radici e non avrebbe conosciuto evoluzione, tra alti e bassi, nel contesto difficile della capitale.
In ogni caso, Darida è stato anche un eccellente uomo di governo, prima come sottosegretario all’Interno, poi come Ministro di Grazia e Giustizia. Ha dunque esercitato ruoli di primo piano, sempre con lo spirito e la sensibilità di un uomo disciplinato, senza mai concedersi alla brutta tentazione del potere per il potere. Per questo s’impegnò duramente, dentro la Dc romana, contro l’insorgenza di un processo degenerativo i cui risvolti, in termini di rapace controllo della macchina di partito, davano a intendere come fosse in atto una vera e propria trasformazione genetica della Vecchia Balena bianca. Fu sconfitto nel congresso romano del 1988, quando s’impose definitivamente l’egemonia di Vittorio Sbardella e, al posto di Nicola Signorello, di lì a poco venne eletto a sindaco, in consiglio comunale, Pietro Giubilo. Il declino della Democrazia cristiana, sempre più marcato sul finire degli anni ’80, vide pertanto Darida coerentemente all’opposizione.
Era fiero, in ogni caso, del suo essere democristiano. Fino alla fine si proclamò fedele alle sue origini di cattolico democratico, anche se non aderì al Partito popolare. Nella sua visione, anche dopo tante difficoltà, anche nel pieno della diaspora i cattolici potevano e dovevano ritrovarsi. Sapeva quanto fosse arduo il disegno di ricomposizione, ma non riteneva giusto svalutare l’ipotesi che muoveva quel “sogno di unità” del mondo (scomposto e disperso) di tradizione democratico cristiana. Dunque, non ha cambiato idea, anzi è rimasto fedele, fino ai suoi ultimi giorni, alla storia del cattolicesimo politico. Cresciuto alla scuola di Dossetti e di Fanfani, forgiato dalle prime battaglie nelle Acli, forte di una fede non concepita come negatrice della laicità, specialmente nella vita politica, Darida ha interpretato una stagione alta è bella della vita politica romana e nazionale, contribuendo a dare forma e concretezza alla responsabilità dei cristiani in politica, sempre nel grande solco dell’insegnamento sociale della Chiesa.
Attraversò momenti di dolore per alcune accuse ingiuste, per le quali patì il carcere e dalle quali fu prosciolto in sede giudiziaria, ricevendo un alto indennizzo. Fu un’esperienza amara, risolta con la restituzione dell’onore pubblico, sopportata con dignità e forza, sapendo di poter esibire fino in fondo la propria rettitudine di uomo e di uomo politico. Anche per questo merita di essere salutato con un sentimento forte di stima e considerazione.
*Clelio Darida era nato a Roma il 3 maggio 1927. Si è spento ieri, nella sua abitazione sul Lungotevere, all’età di novant’anni. La camera ardente sarà allestita in Campidoglio, aula Giulio Cesare, domenica 14 maggio dalla ore 8:30 alle ore 14, i funerali si terranno lo stesso giorno alle ore 15 presso la Chiesa del Santissimo Nome del Gesù, in Piazza del Gesù.