Il femminicidio è il tragico tormentone del nostro tempo. Non passa giorno che non giunga la notizia di una donna uccisa per mano di un uomo, marito, fidanzato, compagno o serial killer, che sia. Da sempre il corpo delle donne è oggetto della violenza maschile, spesso alimentata da una turpe libidine. Da qualche anno, tuttavia, complice il sistema dei media, sembra che la scia di sangue si sia allungata, diventando un fiume in piena. E’ una cosa triste… Che fa orrore. Che alimenta il senso di colpa dei maschi in quanto tali. Devono vergognarsi della loro virilità, del desiderio erotico che li divora, dell’incapacità di accettare il rifiuto. Di metabolizzare l’abbandono! Eppure, l’idea che le donne rivestano soltanto il ruolo delle vittime che, in quanto portatrici di vita, siano poi candidate sacrificali ideali, che non sappiano nutrire odio ed esprimere violenza, si rivela per quello che è: un luogo comune parzialmente infondato, una fake new da smascherare. Due fatti estremi di cronaca nera ci rappresentano la duplicità dell’animo femminile, nel suo complesso e fascinoso impasto di amore-odio-tenerezza-perfidia-seduzione-inganno, di vita e morte – meglio di ogni altra accademica dissertazione psico-sociologica: i casi della Dalia Nera e quelli degli Angeli della Morte.
Il mistero della Black Dahlia
L’uccisione di Elizabeth Short, passata agli annali come la Black Dahlia, rappresenta uno dei casi di omicidio insoluti che più ha fatto discutere gli Stati Uniti. Ora è un libro dal titolo Black Dahlia, Red Rose: The crime, corruption, and cover-up of America’s reatest unsolved murder a provare a stabilire una nuova verità, a oltre 70 anni dal delitto. Nata nel Massachusetts nel 1924, fu assassinata in maniera orrenda e inesplicabile il 15 gennaio del 1947 a Los Angeles. Il suo corpo, completamente dissanguato e orribilmente mutilato, venne ritrovato in un campo e il suo ancora oggi è uno dei casi più sconcertanti del nostro secolo, il fatto di cronaca nera su cui si è maggiormente indagato, con grande dispendio di energie e notevolissimo impegno, senza però giungere ad alcun risultato. Diversi gli indiziati su cui negli anni si sono concentrate le attenzioni degli investigatori, ma per l’autrice del libro, Piu Eatwell, l’assassino sarebbe in realtà stato coperto dalla corruzione imperante nella polizia losangelina. Sarebbero state infatti insabbiate le dichiarazioni rese da Leslie Dillon, tra i primi indiziati per l’omicidio e il solo a conoscere particolari efferati del delitto. Avrebbe agito dietro compenso di Mark Hansen, un facoltoso uomo d’affari danese che avrebbe voluto liberarsi di lei al termine di una fugace relazione conclusasi in maniera burrascosa.
Le infermiere dell’orrore
Suscitò orrore e indignazione la vicenda di Daniela Poggiali, infermiera in servizio presso l’ospedale di Lugo di Romagna (Ravenna), che si scattò un ‘selfie’ sorridente accanto al cadavere di una degente di 78 anni, da lei stessa appena uccisa, secondo l’accusa. Era l’8 aprile del 2014. Per questo omicidio, Daniela Poggiali è stata condannata l’11 marzo 2016 scorso all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Bologna. L’indagine a suo carico ha preso in considerazione 191 decessi verificatisi nell’ospedale di Lugo tra l’aprile 2012 e l’aprile 2014, e una consulenza ha accertato che 139 avvennero nel reparto in cui lavorava l’indagata.
Infermiera era anche Sonya Caleffi, condannata definitivamente a 20 anni dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano, il 3 marzo 2008 per l’omicidio di cinque pazienti. La Procura generale aveva chiesto l’ergastolo, ma la donna ottenne lo scontro di pena previsto dal rito abbreviato. La Caleffi aveva confessato, e aveva anche indicato il movente: voleva sentirsi importante e farsi notare dai suoi superiori. Le indagini le avevano attribuito la morte anche di altri malati: tra el 15 e le 18 persone, decedute mentre erano ricoverate nell’ospedale “Manzoni” di Lecco, dove prestava servizio