Siamo alla fine dei “sonnacchiosi fifties”, alla vigilia dei ribelli sessanta. Stuart “Stu” Sutcliffe e Astrid Kirchherr sono due innamorati in una Amburgo di acciaio ed acqua. Lui è bello, bellissimo, lei è una fotografa che sa quello che vuole. Lui è un poeta uscito dai Beatles per stare con lei, lei sta creando i Beatles. “Sono nato a Liverpool ma cresciuto ad Amburgo”. Ipse dixit, John Lennon. Sono di parte io, il mio romanzo è ambientato per ¾ nella metropoli tedesca ma questo l’ha detto lui, proprio lui, uno dei quattro massimi esperti dei fab four.
Quando ne parlo con persone che non la conoscono – e non sono poche – di Amburgo mi piace spesso dare questa definizione: dirty Amsterdam. C’è meno grazia, e la poesia è sporca di ruggine e fuliggine. Ma è pur sempre poesia, e si respira la medesima aria libertaria e libertina. Città d’acqua, di case a graticcio e a mattoni cuspidate, affacciate su chilometri di canali, Sodoma per la Reeperbahn di Sainkt Pauli e Gomorra per il bombardamento incendiario della RAF del comandante Harris nel 1943, città dall’animo portuale, quanto Napoli, Marsiglia e Barcellona nonostante le 50 miglia e passa che la separano dal Mare del Nord – quando vi partii in bici diretto in Italia ricordo le prue di imponenti mercantili spuntare in mezzo alla campagna fra gruppi di mucche pezzate a pascolare qua e là, visioni da far impazzire Miyazaki. Insomma, è in questa specie di cocktail tra realtà teutoniche, scandinave e olandesi che nell’estate del ’60 arriva dalla puritana Inghilterra un gruppo di musicisti che solo da pochi giorni ha cambiato nome da Quarryman a Beatles storpiando il british beetles, scarafaggi o maggiolini. E’ solo una coincidenza che la band abbia scelto il nome dello stesso animaletto che partendo dalla Germania riscuoterà nei tre decenni successivi un successo planetario in ambito automobilistico…
La Gran Bretagna, testa di ponte europea del nuovo modo di intendere e vivere la gioventù proveniente dagli Stati Uniti, è da ormai qualche anno in piena febbre da rock and roll, con tutto il circo modaiolo e consumistico che ci gravita attorno – look, senso di appartenenza, ribellismo, bande giovanili. Sul continente tutto questo arriva, certo, ma in modo più mediato, la lingua inglese non è ancora patrimonio universale e il benessere, che favorirebbe un certo tipo di atteggiamento edonistico, è ancora in rampa di lancio. A Liverpool come a Londra, Manchester o Birmingham, le rock e le blues band dei figli degli operai sono una realtà così diffusa che risulta già difficile farsi notare. La svolta per i “Quarryman-Beatles” di uno sbarbatello Lennon arriva proprio nel luglio del ’60 quando, per rimpiazzare un altro gruppo costretto a rinunciarvi, viene proposta loro una serie di concerti ad Amburgo. Chissà come presero la cosa i ragazzotti di Liverpool, chissà come se lo immaginavano quello squallido porto industriale tedesco, ma era roba da prendere o lasciare, questo passava il convento. Il gruppo trova alla spicciolata un batterista, Pete Best, e parte, in fondo siamo in piena estate, al massimo ci scappa una vacanza pagata.
Il 17 agosto di quell’anno all’Indra, club non proprio raffinato di Sainkt Pauli, il quartiere a luci rosse di Amburgo, in cartellone è scritto per la prima volta “Beatles”, Lennon e McCartney hanno deciso. E’ la prima di 48 serate intense, entrate nell’olimpo del mito per tutti i futuri fan. Sulla Reeperbahn i quattro (cinque) inglesini scoprono una realtà che mastica e vomita energia senza particolari pudori, come un faro proletario nelle nere notti d’Europa di inizio anni ’60. Il proprietario del club vuole un chiasso infernale, siamo a ridosso del porto, diamine, c’è una schiera di gente che si spacca la schiena tutto il giorno qui fuori e la sera vuole solo una cosa: divertirsi. E’ qui che i Beatles acquistano sicurezza, coscienza del proprio potenziale, sperimentano, incontrano altri musicisti, si misurano e si confrontano. Soprattutto è qui che mollano i freni, liberando la propria creatività. L’avventura si chiude a novembre per una serie di guai con la polizia tedesca ma il ghiaccio ormai è rotto. In città la band di Liverpool possiede già una bella schiera di fans tanto da essere riscritturata per l’aprile dell’anno successivo, il 1961, in un altro club, il Kaiserkeller, frequentato sempre da portuali, mignotte, bulli di quartiere e studenti. Ed è qui che Amburgo mostrerà anche il suo volto raffinato. Una sera capitano di là Astrid Kirchherr e Klaus Voormann, aspirante fotografa la prima e disegnatore il secondo, che gravitano – o si atteggiano, chissà – attorno all’ambiente esistenzialista della metropoli sull’Elba. I due ragazzi rimangono colpiti da quella musica e da chi la interpreta e intessono un rapporto d’amicizia con la band inglese. Astrid andrà oltre, diventando la ragazza di Stuart Sutcliffe, il bassista timido, che abbandonerà il gruppo per frequentare l’Accademia d’Arte di Amburgo e stabilirsi in città, dove poi morirà due anni dopo di emorragia cerebrale. Sarà la fotografa tedesca, con i suoi scatti passati alla storia, a ritoccare in maniera più matura e consapevole il look di Lennon e compagni contribuendo a distinguerne l’immagine dal resto dei gruppi emergenti nel panorama di allora. Frangette, giacche di panno scuro, stivaletti e la coscienza di una grandezza prossima ad essere raggiunta, fissata in quelle immagini in bianco e nero per le strade, i luna park e i pontili deserti di una malinconica e vitale Amburgo che stranamente, in quella breve stagione, covò quello che sarebbe diventato il mito dirompente della spensieratezza.
Sarebbero diventati grandi lo stesso i Beatles senza quel biennio ad Amburgo? Chissà. Forse lo stesso rock non sarebbe stato il medesimo se non avesse incontrato il binomio sex & drug tra i cantieri navali e i locali equivoci della dirty Amsterdam…