Sono moltissimi i giovani che se ne vanno dall’Italia per un’occupazione e qualche certezza in più tra disagio esistenziale e sogni che non possono volare alti.
Ecco ci siamo, uscirà il 23 marzo la pellicola ispirata al programma radiofonico condotto dal regista Giovanni Veronesi che racconta la storia di due ragazzi che vanno a cercare all’estero la propria realizzazione. L’idea del film è nata dall’esperienza di Veronesi a Radio2, con l’omonima trasmissione condotta insieme a Massimo Cervelli, che lo mette in contatto con i giovani andati via dall’Italia per trovare lavoro. Quell’occupazione che da noi sembra essere una chimera.
Il lungometraggio racconta la storia di Sandro, Luciano, Nora e quella di Euro60, un emigrato siciliano interpretato da un bravissimo Nino Frassica. Sono ragazzi italiani tecnologicamente connessi fra loro, innovativi nelle idee, carichi di aspettative, alla ricerca di un luogo in cui realizzare le diverse attese. La trama si dipana in un colorato racconto che ha come sfondo Cuba, una storia condita da diversi imprevisti tra serio e faceto.
“Nella mia trasmissione radiofonica – ha detto in un’intervista il regista del film, Giovanni Veronesi – non faccio che ascoltare giovani che sono andati via dall’Italia perché si sentono espulsi da un Paese che non dà loro prospettive, realizzazione, stipendio. Sono disposti a fare di tutto: i camerieri, i commessi, gli impiegati, ad aprire piccole attività. Negli anni Ottanta se ne andavano i ‘cervelli’ o i figli dei ricchi. Oggi se ne va chiunque. Sono più di 100.000 l’anno, la maggior parte dal Nord. Sono dati clamorosi di cui nessuno parla perché non c’è soluzione. Nel nostro Paese l’immigrazione ha un effetto mediatico molto forte perché quei poveracci arrivano su gommoni in cento e la metà ci lascia la pelle. Quest’altro esodo, di gente che se ne va in silenzio, ma inesorabilmente, non fa notizia anzi crea imbarazzo”.
E in una sorta di circolarità che va dalla finzione cinematografica alla realtà, come pure viceversa, dai dati dell’Istituto nazionale di statistica vediamo come davvero continui a crescere il numero delle emigrazioni (cancellazioni dall’anagrafe per l’estero), con 147.000 persone in più (l’8%) rispetto al 2015. Un aumento dovuto esclusivamente alle cancellazioni di cittadini italiani (da 89.000 a 102.000 unità, pari a +15%). E le principali mete di destinazione scelte dagli emigrati italiani siano Regno Unito (17,1%),Germania (16,9%), Svizzera (11,2%) e Francia (10,6%).
L’Istat sottolinea come di fatto siano sempre di più i laureati italiani over 25 che lasciano il nostro Paese (quasi 23.000 nel 2015, +13% sul 2014) e come l’emigrazione aumenti anche tra coloro che hanno un titolo di studio medio basso (52.000, +9%).
Vediamo perciò un’Italia che oltre ad essere un Paese di immigrazione è altresì un luogo di emigrazione, soprattutto giovanile e questo dato fa pensare alla necessità, all’urgenza, di politiche volte a rafforzare e ad ottimizzare i programmi nelle università, nelle imprese, nella formazione lavoro. Ormai lasciare il Paese sembra sempre più spesso una necessità piuttosto che una scelta.
A confermarlo si aggiungono anche i dati del Rapporto Giovani sul tema “Mobilità per studio e lavoro”, presentati a Treviso un paio di anni fa. Una ricerca elaborata a partire da un panel di 1.000 giovani tra i 18 e i 32 anni, realizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica, con il sostegno della Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo.
Nel Report l’83,4% degli intervistati si è detto disposto a cambiare stabilmente città per trovare qualche possibilità di lavoro. Di questi, il 61,1% si è dichiarato disponibile a cercare un’occupazione all’estero e tra i potenziali emigranti oltre uno su tre ha espresso la probabilità di farlo nel breve periodo. A preoccupare non sembra tanto la presa d’atto di una condizione assai difficile, ma soprattutto il timore che la ripresa non possa arrivare. Per il 44% dei giovani intervistati, le opportunità in Italia sono peggiori rispetto alla media degli altri Paesi sviluppati ed il 48,2% di essi non ha fiducia nella possibilità che entro tre anni queste possano migliorare.
Il Rapporto è del 2015 e tutto sommato chi la pensava così non aveva poi torto.