Completata l’Unità a seguito dell’entrata a Porta Pia dell’esercito piemontese, avvenuto all’alba del 20 settembre 1870, Roma divenne italiana e necessitò subito di un processo di riorganizzazione politica, giuridica ed amministrativa.
Tuttavia, che la città eterna non fosse al momento l’ambiente ideale per una guida laica, tanto meno per insediarvi la capitale dello Stato, apparve subito chiaro alle istituzioni unitarie presiedute da Camillo Cavour. Dopo secoli di dominio papale, verso la fine del 1870 Roma appariva infatti come un centro isolato, privo di una borghesia politicamente influente e con una popolazione non incline ad accettare in breve tempo un cambiamento così epocale. La fedeltà dei romani verso il pontefice non era in discussione, non lo era stata prima e non lo sarebbe stata neanche negli anni a seguire, ed in tal senso l’enfasi patriottica, le imprese garibaldine e la mitologia risorgimentale non condizionarono più di tanto la sua popolazione. Inoltre, sotto l’aspetto della redditività, il tessuto sociale cittadino rappresentava un polo assolutamente improduttivo, al punto tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di iniziativa imprenditoriale o finanziaria.
La scelta di “separare” Roma dal mondo sabaudo – operata soprattutto per dare una parvenza cosmopolita e di neutralità – allo scopo di farne la prima città del Regno, fu legata anche e soprattutto all’idea di dare un ulteriore “colpo” a Pio IX, nel frattempo chiuso nel suo silenzio in Vaticano e temporaneamente contrario ad aprire relazioni diplomatiche con le autorità italiane. Più che pianificare una “Renovatio Imperii”, quindi, l’esigenza di Vittorio Emanuele II e di Cavour di imprimere una svolta positiva alle nuove scelte politiche si manifestò mediante un impegno che garantisse prestigio alle nuove istituzioni, anche dal punto di vista internazionale.
Quella di optare per un moderato come Michelangelo Caetani nella decisione di nominarlo primo sindaco della storia contemporanea di Roma (amministrativamente, nell’età imperiale, questo ruolo era affidato al Praefectus urbi), fu dovuta alla preparazione culturale, alla statura intellettuale e al senso civico del personaggio. Studioso di arte e di archeologia, già principe di Teano e comandante dei Vigili del Fuoco (incarico che i pontefici attribuivano ai nobili romani), Caetani assunse il titolo di duca di Sermoneta alla morte del padre, avvenuta nel 1850, e si rivelò un ottimo amministratore risanando gli antichi debiti della sua famiglia e gestendo al meglio le numerose proprietà terriere e patrimoniali ereditate.
Non fu assolutamente semplice per lui avviare la nuova macchina comunale romana, insediatasi in Campidoglio dopo il ritiro del senatore Cavalletti, avvenuto il 19 settembre. I funzionari italiani, se da un lato ebbero la possibilità di disporre del vecchio cerimoniale e dei palazzi capitolini adibiti all’uopo, lo stesso non si può dire della partecipazione dei funzionari locali ritenuti idonei a svolgere mansioni amministrative. Lo Stato invocò l’aiuto del notabilato cittadino per ciò che riguarda la concessione di nuovi alloggi abitativi e chiese pubblicamente disponibilità ad aiutare la nuova giunta nell’assolvimento dei servizi essenziali a beneficio della popolazione, ma rispetto a tali appelli, i romani mostrarono avidità, pigrizia e scarso senso delle istituzioni. A quel punto, i magistrati municipali dovettero agire con proprie iniziative ed in totale autonomia.
Di fronte al grande disavanzo dei conti lasciati dai vecchi governanti, il bilancio si rivelò gravemente al passivo : al cambio con lo scudo pontificio, il debito corrispose a circa 640.000 lire (con un aggravio del 25% rispetto all’anno precedente), e lo Stato dovette intervenire ricorrendo all’introduzione di una serie di dazi e di canoni a cui i cittadini romani non erano affatto abituati. Già allora, dal 21 settembre 1870, per poter allestire ex novo scuole, servizi ed ospedali, il governo unitario ricorse al debito pubblico, acuito anche dall’impossibilità di reperire un numero sufficiente di edifici ecclesiastici.
Il 2 ottobre 1870, in un’atmosfera più di curiosità che di attesa, si svolse il plebiscito dell’annessione di Roma al Piemonte, al quale parteciparono poco più di 40.000 cittadini su 45.000 aventi diritto al voto. I no, rispetto alle fonti documentarie, sembra che fossero solo 46 : è inevitabile l’associazione temporale ai plebisciti del 1861 che spesso, soprattutto al sud, ebbero luogo in un clima di ricatto e cooptazione. Ad ogni modo, sebbene il popolo romano avesse ribadito la sua vecchia fedeltà al pontefice e non avesse mostrato al contempo segno di significativi moti insurrezionali cittadini, probabilmente, conscio della necessità di alcuni cambiamenti, visse l’evento con uno stato di accettazione abbastanza sereno. Certamente, in virtù della situazione politica e sociale determinata da chi scelse di sposare la causa unitaria e chi decise – col volontariato e l’arruolamento – di difendere il papa, le divisioni rimanevano significative e si sarebbero trascinate negli anni successivi.
Fu Michelangelo Caetani in persona a portare i risultati del plebiscito a Vittorio Emanuele II, di stanza a Palazzo Pitti di Firenze. Restio ad appellarsi alle folle per mezzo di comizi o orazioni pubbliche (come Cavour gli aveva espressamente chiesto) al fine di “ammorbidire” i romani nei confronti delle nuove istituzioni, fu lui stesso che nominò i membri della nuova giunta e che predispose la nuova macchina burocratica comunale, la quale partì con grandi difficoltà e pochi mezzi. Dopo appena dieci giorni dall’inizio del mandato, Caetani si dimise per lasciare la sua poltrona al trentenne Guido Falconieri, principe di Carpegna e nuovo commissario facente funzioni di sindaco.