La linea ferroviaria Roma-Ancona è un viaggio lento, scomodo, su un treno vecchio: lo stesso di vent’anni fa. In tre ore e mezza si attraversa l’Appennino umbro-marchigiano e si ha molto tempo per pensare. Il Frecciarossa ha senz’altro avvicinato l’Italia, creando nuove figure di pendolari. E’ altrettanto vero, però, che l’Alta velocità si è fermata a Eboli (o a Salerno). Durante uno di questi viaggi lenti conosco Giulia (il nome è di fantasia). Sta andando ad Ancona a trovare il suo fidanzato che lavora lì, cosa che capita abbastanza spesso. Il viceversa è meno frequente, come scoprirò facilmente in seguito.
Giulia è una ragazza sveglia, quasi coetanea. Mora, formosa, occhi da cerbiatta e un visino dolce. In un fisico morbido e in forma come il suo, apparentemente stupendo, non la convince una caratteristica: l’altezza. E che sarà mai?
La prima ora di viaggio se ne va parlando del più e del meno (“small talks”, come dicono quelli bravi) ma anche della sua “bassezza”. Le confido che mi ricorda tanto una mia amica, che io chiamo – affettuosamente – “gnocca tascabile”. Non faccio in tempo a chiedermi se sono stato maldestro a rivelarle tale dettaglio, che la vedo ridere di gusto.
Il viaggio si accorcia, l’Alta velocità (della conversazione) è presente in un vecchio scompartimento da sei posti. Grazie, Trenitalia. La chiacchierata si fa sempre più concreta e interessante, la situazione intrigante. Giulia è una ragazza piacevole. Credo di poter dire, senza timore di smentita: la cosa è reciproca. Sul più bello, come spesso succede nella vita, arriviamo (finalmente) ad Ancona. Lei mi dice: “Se non ti dispiace ci salutiamo qua, è venuto a prendermi il mio ragazzo sul binario, sai com’è”. Non faccio in tempo a immaginare una scena da film hollywoodiano, che Giulia mi stampa due bacioni sulle guance e mi abbraccia forte. Quel venerdì sera sono insolitamente distratto, ripenso spesso all’intensità del momento (e del suo profumo).
Il weekend lo trascorro in compagnia dei miei parenti: grandi mangiate di pesce, grosse risate, come sempre. La domenica pomeriggio mi accingo a salire sul treno, per tornare a Roma. Ho davanti a me, sul tavolino, il “Corriere della Sera” e un buon libro. Il viaggio è lungo e bisogna sempre avere qualcosa di interessante da leggere.
A un certo punto sento alle mie spalle: “Ciao, Gabriele”. La voce mi è familiare, anche se non la riconosco subito. Mi volto e vedo Giulia: stesso giorno, stesso orario, stesso treno, stesso scompartimento, neanche a farlo apposta. Anche stavolta mi abbraccia forte. Sento la pressione del suo seno sul mio petto e, in fondo, vorrei che quell’abbraccio non finisse mai. Sono stanco e avrei voluto dormire: non posso più.
Dove eravamo rimasti? Ancora incredulo per quel regalo piovuto dal cielo, riprendiamo la conversazione. E’ un po’ come il ritorno di una partita di calcio a eliminazione diretta. All’andata è finita con un sofferto pareggio (a reti bianche) in trasferta, al ritorno devo segnare, se voglio passare il turno. Lo “sfondamento” centrale non è prudente, meglio agire sulle fasce laterali. Per usare un termine di paragone: meno Belotti e più Insigne. Se lo avesse capito anche Giampiero Ventura, oggi saremmo qualificati ai Mondiali. A proposito: a Giulia piace lo sport (anche il calcio), particolare simpatico e divertente.
Il viaggio prosegue quasi sempre sulla stessa lunghezza d’onda, in un tempo indefinito arriviamo a Roma. Quando siamo quasi alle porte della Capitale, avendo ormai gettato le carte sul tavolo, le chiedo se possiamo rimanere in contatto. Giulia non risponde, colgo l’unico momento di imbarazzo in tante ore di conversazione. Lascio stare, faccio finta di nulla e cambio discorso. A distanza di tempo, rifletto sul fatto che non c’erano segnali di apparente tensione tra lei e il suo ragazzo: stavano bene insieme, così come in quelle sette ore lei è stata senz’altro bene con me. Il mio sogno di rivederla doveva pur infrangersi, alla fine, con la dura realtà. “Un giorno qualcuno si accorgerà di te”, recita pur sempre l’antico adagio di un grande scrittore.
Arriviamo alla stazione di Roma Termini: il congedo è affettuoso e delicato. La vedo allontanarsi nell’atrio, suo padre è venuta a prenderla in macchina, ha parcheggiato all’ingresso laterale di via Marsala. Mi avvio verso casa, trattenendo a stento una lacrima. Però quel viaggio è stato, almeno per me, istruttivo. Una lezione di vita. Sull’efficacia delle “small talks”senz’altro, anche se lo sapevo già. Ma soprattutto sulla necessità di godersi, fino in fondo, determinati momenti della vita. Come certi treni che passano, si fermano, e ripartono. E bisogna essere bravi a prenderli al momento giusto.