Se Venezia è centrale nell’esperienza di John Ruskin, Ruskin è essenziale per comprendere l’inscindibile connessione fra società e arte.
Critico d’arte londinese e riformatore sociale, Ruskin attraversò l’Ottocento e l’Europa osservando la natura, i monumenti e le opere d’arte, e studiando i mutamenti della società. Amò l’Italia e Venezia, dove visse, studiò e concepì interessanti teorie sul bello, sulla natura e sull’intreccio fra territorio, identità e arte.
“Non provo alcun romanticismo a Venezia”, disse in tarda età, dopo aver più volte dichiarato una razionale passione per la città lagunare elevata, in seguito, a simbolo delle sue teorie non solo estetiche ma anche politico-religiose.
A Venezia andò undici volte, la prima a sedici anni, nel 1835, l’ultima a sessantasette; coi genitori da giovane, da solo e poi con la moglie Effie, e, più tardi, con amici e discepoli. La visione giovanile è romantica; quella più matura è di esaltazione per l’arte e il passato di Venezia, e insieme di revulsione per la rovina e il decadimento del presente.
Quella finale culmina nella sua quasi totale cancellazione nella tarda autobiografia, Praeterita, dove Venezia è la grande assente. Ruskin si può considerare il padre di una visione di Venezia nella quale la sua bellezza si esalta proprio perché è in declino. Essa diventa paradigma e modello in quanto è minata dalla corrosione e dal disfacimento, da uno splendore che sfocia in miseria. Venezia è bella perché è in rovina; la rovina è il marchio o il segno della sua bellezza. È una bellezza in tutti i sensi «perduta», perché è perduta.
Dunque, un legame indissolubile fra natura, società e bellezza.
In The seven lamps of architecture sostenne che l’imitazione della natura fosse l’unica via per creare bellezza. Ben presto, la sua attenzione all’arte si intrecciò con l’osservazione della società e dei suoi mutamenti: rifacendosi a Pugin sviluppò il concetto della connessione tra opera d’arte e stato della società, presentando il Medioevo come ideale e modello della riforma della società contemporanea.
Da critico estetico, Ruskin, finì per trasformarsi in critico della società: lo studio dei pregi dell’architettura gotica lo aveva condotto a meditare sulla morale degli uomini che l’avevano creata. Dedicò gli ultimi quarant’anni della sua vita a esporre le proprie teorie su problemi sociali e industriali: l’arte diviene un mezzo per innalzare il tono della vita spirituale.
Ma Ruskin non si fermò alla teoria: impiegò la larga fortuna ereditata, sovvenzionando case operaie anche attraverso la St. George’s Guild, da lui fondata nel 1871. Le sue vedute rivoluzionarono non solo l’estetica inglese ma anche quella europea.
Le opere di Ruskin, scrittore di grande efficacia apprezzato tra gli altri da Tolstoj e Proust sono state raccolte in The works e molte tradotte anche in italiano e i suoi numerosi disegni e acquerelli sono conservati a Oxford (Ashmolean Museum), Birmingham (Museum and Art Gallery), Londra (Victoria and Albert Museum).
Una lezione, quella tramandata da Ruskin, che ricorda il legame indissolubile fra identità, arte e saper fare. E che, se ben declinata, potrebbe aiutare lo sviluppo economico legato a una consapevole attrazione di turisti, studiosi e investitori.