Negli ultimi anni i processi sociali e le scelte culturali dell’Italia odierna rendono gli Istituti di pena soggetti ancora più deboli e in difficoltà strutturali anche per mancanza di fondi. I problemi sono i più vari: sovraffollamento, carenza di personale, orientamenti e decisioni che spingono verso il rischio di un ritorno ad un carcere non rieducativo ma prettamente esecutivo della pena (con negazione di fatto della Legge Gozzini), presenza sempre maggiore di detenuti non italiani (con evidenti problemi di povertà, difficoltà comunicative, etc., presenza sempre maggiore di giovani che per piccoli reati (ad esempio detenzione o piccolo spaccio di stupefacenti) riempiono le patrie galere e, purtroppo, spesso imparano il mestiere proprio in questa condizione.
Nell’attuale momento storico il teatro appare sempre più difficile, sempre più lontano quando non osteggiato dietro al paravento delle difficoltà economiche degli enti pubblici. In questo contesto il teatro in carcere getta un ponte fra il “dentro” e il “fuori” degli istituti di pena e si colloca – nella logica originaria del teatro pubblico europeo quando ipotizzava e praticava l’idea di un teatro d’arte al servizio delle comunità, un servizio pubblico da svolgere con autonomia e libertà creativa. Non a caso il teatro in carcere adotta abitualmente tecniche e riferimenti artistici che guardano alle avanguardie artistiche del Novecento esprimendo una creazione teatrale che – attraverso l’invenzione della regia – usa lo spazio, il movimento, l’improvvisazione, il gesto vocale e corporeo. Un teatro che va oltre la prosa e che utilizza linguaggi nei quali le culture e le lingue possono incrociarsi, creando nuove alchimie sceniche. Il teatro in carcere appare come un’esperienza teatrale, insieme, popolare e di elevata qualità artistica.
Il teatro, se presente all’interno di un istituto di pena, entra a far parte di quelle attività formative volte alla cosiddetta rieducazione e/o riabilitazione del condannato. Ed è interessante osservare le effettive esperienze di trasformazione che si suppone coinvolgano, attraverso il teatro, mente e corpo di persone costrette alla detenzione. Ci chiediamo in tal senso: in cosa consiste realmente il cambiamento? Come l’attività teatrale agisce sull’individuo? Perché il teatro in un carcere dovrebbe essere rieducativo e contribuire al reinserimento sociale?
A queste domande risponde con estrema incisività l’antropologa Alice Lou Tanzarella: “Il detenuto-attore viene esortato a compiere un movimento di decostruzione e costruzione di Sé che può condizionare anche ciò che si trova al di fuori dell’esperienza di finzione artistica. Osservarsi, pensarsi e ri-pensarsi, come un personaggio, pone l’individuo nella condizione di poter negoziare nuovi significati di Sé e della propria immagine, e di imparare a relativizzare il proprio punto di vista nella realtà teatrale e nella vita reale. La sperimentazione teatrale può aiutare l’attore-detenuto a acquisire l’abilità di “vedersi da fuori”, a viversi come un personaggio di un processo narrativo e a dotarsi di nuovi sensi per risceneggiare se stesso verso un futuro diverso e lontano dalle esperienze del delinquere. Non c’è probabilmente rieducazione efficace se non si arriva a una trasformazione narrativa del soggetto. Non c’è cambiamento se non si aiuta il protagonista a uscire dal carcere con una nuova storia di Sé e con nuove rappresentazioni del mondo”.
Con tali premesse parliamo di “Destini incrociati”, la quarta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere che quest’anno si è tenuta a Roma. Punto centrale dell’evento il teatro Palladium dell’Università Roma Tre. Dal 15 al 17 novembre, tre giornate di spettacoli, conferenze, proiezioni, video e laboratori. Gli eventi si sono tenuti anche all’Istituto Penitenziario di Rebibbia Femminile, alla Biblioteca Hub Culturale Moby Dick della Regione Lazio, al DAMS dell’Università Roma Tre. La mattina del 17 si è tenuto un convegno per tracciare un bilancio sull’attività svolta negli ultimi anni e promuovere nuove prospettive per la scena penitenziaria italiana.
Il progetto, si inserisce tra le attività che l’Ateneo Roma Tre porta avanti nell’ambito della “Terza Missione” e fa seguito al Festival “Made in Jail. Carcere & Cultura” (dicembre 2014), diretto da Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro presso l’Università Roma Tre, ed è parte del Protocollo d’intesa su “teatro e carcere” tra l’Università degli Studi Roma Tre/Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, il Ministero della Giustizia/Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere.
“La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato – spiega il Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere Vito Minoia – non appare come una moda teatrale, ma come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva, una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere: si riduce dal 65 al 6%”.
Una sezione è stata interamente dedicata alla proiezione di video, selezionati e scelti dalla direzione artistica dell’intera Rassegna composta da Ivana Conte, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà e Valentina Venturini. Parte integrante del progetto sono stati i laboratori di accompagnamento alla visione degli spettacoli destinati ai detenuti e agli spettatori della Rassegna, curati da Agita (associazione nazionale e agenzia formativa) e quelli di critica teatrale per gli studenti universitari del DAMS/Dipartimento di Filosofia Comunicazione e Spettacolo, curati dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro con la collaborazione del Teatro di Roma.
Durante la rassegna il foyer del Teatro Palladium ha ospitato la mostra Prigionie (in)visibili, il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo, curata dallo studioso giapponese Yosuke Taki. Insieme a Eduardo De Filippo, Beckett è l’autore più rappresentato in carcere, sin dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando un prigioniero di un istituto penitenziario tedesco tradusse e rappresentò il suo En attendant Godot. La mostra illustra alcune esperienze di messa in scena di opere di Beckett all’interno di prigioni, in Italia e all’estero. Sono stati anche esposti materiali sulla carriera di Rick Cluchey, l’ex-ergastolano statunitense che ottenne la grazia per meriti artistici per le sue attività teatrali nel carcere di San Quentin e che, dopo il suo rilascio, recitò in diverse opere con la regia dello stesso Beckett.