Conoscere il vino non può limitarsi alla descrizione delle caratteristiche olfattive o gustative, senz’altro importanti, ma straordinariamente riduttive e irrispettose non solo di chi il vino lo fa, ma del territorio in cui nasce e del lavoro di chi le uve le prepara per la grande alchimia racchiusa nel processo di vinificazione.
In particolare, la conoscenza del vino non può prescindere dalla conoscenza dell’uva, della pianta, del territorio, del suolo e del clima. Il vino è la sedimentazione in bottiglia di tutti questi fattori che si amalgamano tra loro in un reciproco scambio di influenze.
Con questa consapevolezza visitiamo l’azienda Feudi di San Gregorio non prima però di aver goduto dei profumi straordinari delle erbe aromatiche che nella perfezione delle loro aiuole quadrate accolgono i visitatori con un tripudio di mirto, lavanda, timo, rosmarino, origano e ginepro, quasi a voler anticipare al degustatore i sentori che l’esperienza olfattiva gli riserverà.
La tradizione non è necessariamente sinonimo di qualità. La ricerca scientifica deve guidare, attraverso un percorso evolutivo, il rinnovamento delle tecniche di cantina e delle pratiche agricole. Infatti, non sempre il passato va guardato con nostalgia e recuperato acriticamente nella convinzione che risolva o dia risposte a tutti i problemi. Occorre intendere la tradizione come un processo dinamico di evoluzione in cui certi errori ripetuti negli anni vengano finalmente corretti sulla base di un’evidenza scientifica che consenta di realizzare la migliore scelta o mix di scelte orientate a criteri di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione vitivinicola.
La scelta della varietà, ed ancora più a monte del portainnesto, non può prescindere dall’analisi del territorio qui inteso nella sua accezione sia fisica che culturale. E’ innegabile che maggiore è la vocazione di un territorio per un determinato vitigno, maggiore sarà la probabilità che l’uva prodotta, e conseguentemente il vino, sia di qualità.
Nella scelta del vitigno da impiantare non possiamo prescindere dalla particolare vocazione del terreno, che del territorio costituisce l’aspetto fisico più immediato. Prescindere dalla conoscenza scientifica del terreno può infatti portare a scegliere vitigni geneticamente incompatibili o comunque difficilmente adattabili alle effettive caratteristiche chimico-fisiche e geomorfologiche in cui la vite si troverà a crescere con evidenti ulteriori ripercussioni sulla qualità e quantità della produzione. Ad esempio, l’Aglianico è un vitigno che necessita, per dare uve di qualità e rispondenti alla sua tipicità, non solo di un terreno con caratteristiche ben definite ma anche di un clima specifico, di una certa piovosità e di una tecnica di potatura attenta e rispettosa: in altre parole anche questo vitigno ha bisogno del suo terroir per esprimere al meglio le sue potenzialità.
E’ evidente che non rispettare il terroir di vocazione di per sé non preclude certo la produzione di uva, impedisce però una produzione di qualità rispondente alla tipologia. I tecnici che si sono avvicendati nel ruolo di docenti unanimemente hanno sottolineato come da uve modeste possano comunque prodursi buoni vini, tecnicamente perfetti se la fase della cantina è realizzata con tecniche di assoluta eccellenza, ma mai grandi vini che parlino del proprio territorio con toni emozionanti sino ad infondere nel degustatore attento quasi un sentimento di riconoscenza a quel terroir che pazientemente ha portato le uve a diventare un grande vino.
Il Taurasi 2010, vino sperimentale proveniente dai vigneti di Piano di Montevergine, esprime il suo terroir attraverso una tipicità intimamente legata al territorio con le sue note balsamiche, selvatiche e speziate. Al naso è tuttavia ancora scuro, si incontrano note di tabacco, grafite e china che lasciano spazio anche a sensazioni agrumate che ricorda il cardamomo; i tannini un po’ ruvidi ma mai sgarbati indicano una potenzialità evolutiva da attendere con pazienza per un risultato che sicuramente non deluderà anche le aspettative più ambiziose.
La visita ai vigneti di Aglianico a Taurasi avvalora le sensazioni descritte: il profumo delle erbe selvatiche, la ferrosità quasi ematica del terreno caratterizzato da un forte presenza di ciottolato irregolare, la rugiada delle prime del mattino, avvolgono e infondono in questi vigneti un impronta unica ed irripetibile altrove, la tipicità. La coltivazione della vite è attenta e rispettosa della pianta, i grappoli sono maturi e gli acini stupiscono per la loro dolcezza e acidità soffusa, la buccia spessa e ricca di sentori freschi. Con la fantasia rapita dal paesaggio trapunto di vigneti bassi e coltivati a cordone speronato, vago tra i filari osservandone la straordinaria ripetitività geometrica, le sequenze di colori e non mi accorgo che all’improvviso ho lasciato il XXI secolo e mi ritrovo nella più romantica delle vigne, una vigna segreta fatta di piante secolari, plasmate da innumerevoli braccia i cui sforzi nei secoli sembrano tutti orientati a un unico obiettivo, fare uva per fare vino. Quell’unità di intenti dura ancora oggi, e quelle stesse viti continuano, rugose e ritorte, quasi pietrificate, a tendere i grappoli al sole perché ancora una volta, oggi con l’aiuto della conoscenza e sensibilità dell’enologo Pierpaolo Sirch, queste uve diano un grande vino che continua a stupirci.
Nelle degustazioni proposte durante la visita, mi soffermo sul Vulture 2010. L’Aglianico non si esprime, a mio parere, come nel Taurasi. All’olfatto presenta note di frutti rossi, a tratti floreali con sentori di viola, straordinaria sapidità accompagnata da sensazioni ematiche quasi ferruginose che si affiancano a un tannino raffinato in un complesso pronto, equilibrato ed elegante. L’espressione dell’Aglianico nel territorio del Vulture ha sicuramente dato un vino che oggi ci regala un equilibrio inaspettato ed una naso raffinato e piacevole anche se dal vitigno mi aspettavo maggiori note affumicate e balsamiche.
La declinazione dell’Aglianico nel proprio territorio di vocazione regala una molteplicità di sensazioni sicuramente irripetibili fuori da questo terroir, ciò che stupisce è anche la netta differenza espressiva che il territorio del Taburno esprime. Sebbene l’olfatto ricordi le note scure del territorio di Taurasi, la gustativa mette in evidenza una persistenza non pienamente appagante caratterizzata nel finale da una nota ematica e da un tannino leggermente spigoloso. Tali diversità nelle caratteristiche dell’Aglianico, oltre che da considerazioni squisitamente geomorfologiche, potrebbero dipendere anche da fattori climatici che nell’annata di riferimento non gli hanno consentito di esprimersi secondo le proprie potenzialità.
L’identificazione delle vocazioni territoriali è sicuramente un’attività imprescindibile ed irrinunciabile per ottenere un grande vino, ma non è sufficiente. A questo occorre aggiungere una forte consapevolezza delle caratteristiche del territorio per agire secondo le necessità delle varie zone territoriali ed intervenendo dove necessario. L’esperienza vissuta ai Feudi ha messo in luce che l’attività di ricerca delle caratteristiche genetiche delle piante, la mappatura del territorio secondo le diverse zone consentono di intervenire per garantire al vitigno il miglior ambiente nel quale esprimersi, gettando le basi perché il lavoro in cantina dia dei grandi vini.