Mater. Tra le tante ipotesi sull’origine del nome della città mi piace questo, il più improbabile. Quando le legioni latine giunsero fra questi brulli valloni (che allora poi tanto brulli non erano), Matera era un insediamento già molto più antico di Roma e nessuno più, da millenni, poteva ricordare (è anche probabile che ne avessero pure poca voglia) il perché di quel nome.
Forse è Mata il maggior indiziato fra i sostantivi che potrebbero in qualche modo aver avuto un ruolo nella genesi del toponimo come oggi tutti lo conosciamo. Starebbe a significare “cumulo di pietre” e a pensarci è l’immagine maggiormente in sintonia con il genius loci asciutto ed austero che caratterizza l’area. Mata, un suono breve, antico e netto, quasi un segno, che rimanda ad oscure popolazioni del Neolitico, periodo in cui alcune comunità realizzarono i primi nuclei stabili da queste parti. Mata, un suono quasi di sassi che cozzano, e che generano scintilla, fiamma, fuoco, fino ad illuminare l’antro di una grotta, riparo sicuro per uomini e donne…
Ed è un cumulo di pietre quello che mi si è parato innanzi una mattina di qualche settimana fa, svoltando il gomito di via D’Addozio e scendendo verso il convento di Sant’Agostino. Un immenso cumulo di pietre sapientemente connesse, scavate, incastrate, scanalate, sovrapposte, giustapposte, deformate, rappezzate, cesellate, tutte meravigliosamente consumate dalle ruvide mani dell’uomo. Il Sasso Barisano, color della terra, avvinghiato alla terra, nato dalla terra, si stendeva alla mia destra acciambellato come un gatto al tiepido sole del mattino. Un anfiteatro, che il gioco chiaroscurale della luce già così intenso a queste latitudini, faceva somigliare a un formicaio. Di primo acchito mi ricorda Modica, in Sicilia, il paese di mia madre, così digradante, arroccato e oramai un tutt’uno con il costone. Ma è un’altra dimensione questa, più ancestrale, omerica, primitiva, manca l’ocra gentile, la grazia sinuosa del barocco, il tocco arboreo nascosto tra i microbici cortili; davvero pare una Modica dell’ante Cristo! Ci fermammo con Elena sul belvedere della piazzetta antistante il convento, di fronte a noi uno dei panorami più belli che abbia mai visto. La città, così bianca e nera, netta d’ombra e di sole, mi pare un cumulo d’ossa, freddo ed essenziale, immersa in un deserto metafisico come spesso se ne trovano nel grande Sud. Lo sperone della Civita domina il Barisano da est e si affaccia col suo carico di tetti, terrazzi, rampe e pertugi sull’orrido preistorico della Gravina. Colpisce l’immaginazione questo straordinario accostamento tra uno spazio densamente antropizzato, specie di Suburra in miniatura, e il vuoto più totale di una natura aspra e selvaggia, una separazione netta tra due mondi che paiono contraddirsi. E’ difficile riscontrare un fenomeno simile in altre realtà urbane del mondo, soprattutto fra quelle popolate da lunghissimo tempo come questa. Attorno ai nuclei storici vi è sempre uno sfilacciamento che filtra il passaggio dall’area abitata a quella non abitata. Qui vi è un oggettivo problema orografico certo, ma l’effetto è strabiliante e capace di provocare sgomento, scenario iconico e cosmogonico, due potenti eserciti che si fronteggiano prima della battaglia finale, luogo ideale per l’Armageddon.
Una sensazione simile l’ho provata proprio a Gerusalemme ammirandola dal Monte degli Ulivi. I nudi bastioni del Monte del Tempio che si gettano sul nudo cosmico della Valle di Giosafat, secondo la Bibbia il luogo deputato al Giudizio Universale. E sono questi fondali, queste improvvise fenditure della terra, le case compenetrate alla roccia, i budelli da inferno dantesco, il deserto ocra tutt’intorno, l’insieme ieratico ad aver scolpito nel nostro immaginario Matera come la piccola Gerusalemme d’Occidente.
Oggi questo gioiello che affaccia sulla gravina corre un rischio, subdolo e mieloso: il mondo si è accorto di lui. Ché se in prima istanza questo non possa che essere un bene (sono arrivati soldi, restauro, turismo e vita) non lo si può mettere in dubbio; che si corra il rischio di distruggere in pochi anni una magia covata lentamente in millenni di inverni nevosi ed estati arroventate, anche questo è indubbio. Dovranno essere molto bravi gli amministratori e gli abitanti a gestire l’immensa popolarità che ha investito il sito in brevissimo tempo essendo piacevolezza che può dare alla testa. Non vorrei che il borgo si trasformasse in una città di soli b&b, ammiccanti ristorantini rural-chic e rileccati Sassi radical-chic. L’ingordigia del turismo di massa già propaga il suo fiato pesante, sentivo nominare persino Craco fra le viuzze trafficate di Matera, i tour operator vogliono vendere pure il villaggio abbandonato a venti chilometri da qui. Matera si è salvata grazie all’oblio, grazie al Cristo che s’è fermato sino ad Eboli, alla malaria e alle scandalizzate relazioni di politici e notabili; settant’anni fa s’è accucciata in quest’angolo d’Italia, sola e in disparte come un cagnetto abbandonato e il mondo scintillante del boom s’è scordato di lei. Non v’è stato spazio neppure per demolizioni o volgari superfetazioni, ad un certo punto bisognava abbandonarla per legge. Ed è grazie a questo binario morto se oggi ci troviamo questo e altri capolavori innanzi agli occhi, soprattutto nel reietto Sud. Matera è l’emblema di queste incredibili positive dimenticanze, di vergogne neanche tanto dissimulate, di sorprese ritrovate nella soffitta della Storia. Non vorrei perdesse per sempre quei silenzi, quei chiaroscuri netti, quel confortante odore di fascina che arde nei camini, che si spande le sere d’inverno e rassicura che il quotidiano tributo di sudore sul lavoro sarà lavato con un buon bicchiere di aglianico. E’ poesia la mia, mera poesia e me ne rendo conto. Ma vi è un essenza in questo come in altri borghi del nostro Paese, un essenza distillata in secoli di gesti oscuri e sapienti, in taluni casi dolci come carezza di madre, in tal altri pungenti come schiaffo della terra, ma “essenza” dunque, che non può essere oggi ridotta a slogan e cartolina. Benvenuto 2019 allora, con la consapevolezza che quel 2019 non rimanga vuoto ed ammiccante logo ma faccia sentire il peso di tutti i suoi rugosi anni, di tutte le nodose radici e di tutta la dura storia dell’antica e splendida Matera.