Quella strana scaramanzia sul numero 17 quest’anno è venuta meno alla prova dei fatti e tutto si è svolto nel migliore dei modi. Così il 17 gennaio a Maserà, un incantevole comune in provincia di Padova, si è tenuta la 17esima edizione della Festa del radicchio, una mostra-mercato e concorso dei radicchi padovani, dove a fare la parte del leone sono il radicchio bianco Fior, il Rosa di Maserà ed il Maserà classico d’altri tempi. Banchi e stend colmi di ortaggi sono stati allestiti nella piazza principale del paese, con intorno una cornice di degustazioni enogastronomiche a chilometri zero. L’evento è stato organizzato dalla locale Amministrazione comunale, dalla Camera di Commercio, dai produttori agricoli di Coldiretti, Confagricoltura Padova e da altre istituzioni locali. Il ricavato dalle degustazioni e dalle vendite del radicchio è stato devoluto alla Fondazione Città della Speranza di Padova, a favore delle attività di ricerca e di cura dei piccoli pazienti ospedalizzati.
Il primo a descrivere il radicchio di questo territorio fu Plinio il Vecchio che ne parlò come un cibo per poveri, soffermandosi in particolare sulle virtù medicinali del succo di cicoria usato contro il mal di testa, i dolori al fegato e alla vescica e delle radici, una sorta di panacea efficace contro il mal di stomaco, la gotta, la prostata, l’insonnia. Plinio accennò anche alle tecniche, quasi moderne, di imbiancamento di queste lattughe, consistenti soprattutto nel taglio dei germogli ad una certa altezza. E in un documento del 1561, il prefetto dell’Orto botanico di Padova, Luigi Squalermo, si riferì proprio ad una cicoria invernale coltivata nel Veneto, anch’essa da imbiancare. L’origine del radicchio può forse essere fatta risalire a varietà simili a quella descritta come “a foglie più larghe della selvatica per la coltura. Questa sorte non è altro che li radicchi che si seminano negli horti, la selvatica invece è quella che nasce in campagna. La seconda è la nostra cicoria in bianca che si mangia al tempo dell’invernata”.
Giovan Battista Barpo, canonico bellunese, in un suo scritto del 1634 descrisse la forzatura e l’imbiancamento del radicchio: “Alcuni la trapiantano per averla più tenera, altri la legano come la lattuga o indivia, per farla bianchissima e tenera. Col lasciarla sotto la sabbia, o coperta con terra, canne, foglie, paglia di sarafino, o legata stretta; ma ancora meglio diventerà se verranno coperti i suoi piedi con piattelli o scodelle fatte apposta; poiché non respirando e non essendo toccata dall’aria, verrà come neve bianca e questo viene stimato per bellissimo segreto”.
Nel tempo la coltura del radicchio ha superato l’ambito familiare per assumere connotazioni e conferme di gradimento assai più ampie. L’introito economico derivante dai mercati dei centri urbani in sviluppo nei decenni ha consentito una notevole sperimentazione sia per le varietà che per le tecniche colturali. L’apice di notorietà è stato raggiunto dal radicchio rosso tardivo di Treviso, la tipologia probabilmente più antica tra quelle oggi coltivate. Ma anche per il radicchio bianco fior di Maserà tutto fa presupporre che questa sarà un’ottima annata.Chissa´ quale dei due curera´meglio i nostri mal di testa…