Riesplode la questione annosa della spesa dei Comuni in relazione ai costi standard, grazie a un articolo di Sergio Rizzo su Il Corriere della Sera che, sulla base di un recente dossier di Confartigianato, evidenzia l’inefficienza di certi Comuni a cominciare da Caserta – spende il 40,9% in più di quanto dovrebbe – seguita da Reggio Calabria (+40,5%) e da Rieti (+39,5%). Il caso più eclatante è pero quello di Roma. Secondo il report, a causa della cattiva qualità dei servizi pubblici e delle lungaggini burocratiche, sui cittadini della capitale grava ogni anno un divario fra spesa reale dell’amministrazione capitolina e fabbisogno standard pari a 584 milioni e 688mila euro (scarto del 18,3%). I dati si riferiscono al 2013, fa notare Rizzo, ma nell’ultimo triennio le cose non sono sostanzialmente migliorate.
In altre parole, lo studio di Confartigianato sottolinea come il 20% del totale dei Comuni debba essere considerato inefficiente, assorbendo il 30% della spesa complessiva del settore. Il criterio dell’efficienza si fonda proprio sul divario fra la spesa reale e spesa ottimale, calcolata in base a precisi parametri: dimensioni dell’ente (territorio, popolazione), livello dei servizi pubblici (scuole, trasporti, rifiuti, ecc.). A parziale scusante di quei Comuni ritenuti inefficienti, tuttavia, va riconosciuto che il meccanismo dei costi standard – introdotto sei anni fa dalla legge sul federalismo fiscale – non è andato concretamente a regime, poiché dal 2011sono intervenuti a modificare quelle norme ben 16 decreti e un diluvio di ricorsi. Caos normativo assicurato, dunque.
Il rapporto di Confartigianato non si limita, comunque, a puntare il dito sulle criticità del sistema, bensì segnala anche i casi di eccellenza amministrativa come Milano (risparmia l’8,85 ogni anno), oppure Vicenza (-28,9%) e Ascoli Piceno (-15,2%), per non parlare di Monza(-13%) , Bergamo (-12,1%), Verona(-10,2%). Si definiscono virtuosi, pertanto, quei Comuni che spendono meno di quanto previsto dal fabbisogno standard. Singolare, poi, il caso di Napoli, per altri versi rappresentativo di un altro gruppo di enti focalizzato dalla ricerca: spendono meno perché danno meno. Il capoluogo partenopeo, infatti, risparmia 135 milioni rispetto a quanto previsto dal fabbisogno standard, perché offre servizi di quantità e di qualità inferiori.
“Difficile parlare di ripresa e competitività in un’Italia a quattro velocità – commenta Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato – in cui prevalgono le amministrazioni che scaricano su cittadini e imprese i costi di cattiva gestione”. Il suo atto d’accusa punta il dito contro l’incremento della spesa per la burocrazia (+3,9% nel 2016), a fronte di un aumento del 15,9% delle tariffe dei servizi locali. C’è poi il “buco nero” delle partecipate, una galassia magmatica che non brilla certo per efficienza gestionale e amministrativa, dato che il 65,3% delle 8000 società pubbliche, paradossalmente non gestisce servizi pubblici, e circa 1085 di esse non conta neppure un addetto, ma “solo poltrone per amministratori”, conclude Sergio Rizzo.
Puntuale e documentato, il rapporto di Confartigianato appare però meno ferrato sull’analisi delle cause della così detta “inefficienza” di un segmento importante di amministrazioni locali. Alcune questioni, infatti, non sembrano indagate a dovere. Una per tutte, l’eccesso di personale che in certe realtà rappresenta un fardello pesante in termini d’incidenza sui costi delle prestazioni e sulla qualità dei servizi. Uno scotto che il sistema delle autonomie locali, soprattutto in alcune aree del Mezzogiorno, ha dovuto pagare alla tenuta del tessuto sociale, lacerato dalla disoccupazione e dalla criminalità. Allora una domanda appare ineludibile: cosa bisognerebbe fare del personale in esubero, sacrificarlo sull’altare impietoso dell’efficienza?