Se mai è esistita una città ai confini del mondo questa è stata senz’altro Buenos Aires. Lontana dai lucrosi traffici del Caribe ed emarginata rispetto a qualsiasi rotta commerciale del passato Baires – la città nata due volte – nei suoi primi anni ha dovuto lottare anche solo per rimanere in vita ma pian piano è cresciuta, ha preso coscienza di sé e delle carte che aveva in mano e si è inventata un ruolo che le ha consentito di stare dignitosamente al mondo: la porta di un grande retroterra agrario che convogliava le ricchezze di una classe di possidenti, notabili e monopolisti del porto per i quali la città diveniva infine palcoscenico sul quale rappresentare le proprie esistenze, soddisfare i propri desideri, alimentare le proprie aspirazioni. Per tanto tempo i porteños (così son chiamati i suoi abitanti a significare l’importanza dell’attività marittima) snobbarono tutto ciò che odorasse di Sudamerica cercando più pervicacemente che altre capitali delle colonie il confronto con i modelli europei.
Forse è il clima, più simile all’alternarsi delle stagioni del vecchio continente e sicuramente i piovosi e solitari inverni della Pampa acuiscono la malinconia, chissà, fatto sta che carpendo da laggiù i segreti di Parigi, di Londra, della Galizia e di mezza Italia un pugno di immigrati europei sono riusciti a creare qualcosa di unico e genuino: Buenos Aires. Sono in pochi a saperlo ma già nel nome la capitale argentina serba un destino profondamente intrecciato al mare e ai viaggi per esso. Nel 1323 gli aragonesi che stanno procedendo alla conquista della Sardegna sbarcano su una spiaggetta un chilometro a sudest della rocca di Cagliari. Si insediano sulla collinetta alle spalle dell’arenile e la battezzano del buen aire – dell’aria buona – poiché da lassù tengono d’occhio il nemico asserragliato all’interno del Castrum Callari e al contempo vengono risparmiati dalle zanzare portatrici di malaria. L’assedio prosegue sino alla completa conquista della città ma su quel colle gli spagnoli fanno in tempo a edificare una chiesetta che pochi anni dopo verrà donata ai frati dell’ordine della Mercede che vi costruiranno anche un convento. Passano quarantacinque anni e nel 1370 una nave al largo del golfo di Cagliari sorpresa da una tempesta butta a mare il carico sperando di alleggerire il bastimento. Ma a quel punto, secondo la leggenda, una delle casse fra i marosi pare calmare le acque e aprire alla galea una via fra le onde sino a farle toccare terra su una spiaggetta alla periferia della città sarda.
Dalla collina ai piedi di quella spiaggia scendono dei frati a dare soccorso ai naufraghi e tutti insieme aprono poi la cassa misteriosa che, secondo i marinai, li ha salvati da annegamento certo. All’interno trovano una Madonna con bambino in legno, di circa un metro e mezzo di altezza e subito gridano al miracolo. Da quel momento quella Vergine, custodita sulla chiesetta in cima al colle e ribattezzata Nostra Signora di Bonaria (buen aire), diventa la storica protettrice dei marinai spagnoli che si recano sin lì in pellegrinaggio ogniqualvolta si accingono ad affrontare un grosso viaggio per mare. I secoli passano e dopo la clamorosa scoperta colombiana i “grossi viaggi per mare” sono soprattutto quelli attraverso l’oceano, verso il Nuovo Mondo. Nel 1516 i marinai delle tre navi di Juan de Solìs nel lor viaggio di esplorazione delle estreme terre a sud del continente americano si accorgono che l’acqua dell’oceano su cui stanno scivolando non è salata. Battezzano subito Mar Dulce quel curioso tratto di mare e, inquieti, immaginano di trovarsi vicini, vicinissimi alla fine del mondo. Per il loro capitano sarà davvero la fine del mondo: dopo un tentativo di sbarco sulla costa Solìs viene ucciso e probabilmente divorato dagli indigeni mentre quel che resta dell’equipaggio riesce rocambolescamente a rientrare in Europa.
Venti anni dopo ancora gli spagnoli, capitanati da Pedro de Mendoza, tentano di stabilire una testa di ponte a quelle latitudini. Non è una zona appetibile rispetto alle terre brasiliane, qui fa freddo, solo vaste praterie spazzate dai venti e pare non vi sia neppure una civiltà sufficientemente avanzata da depredare ma è importante arrivare qui prima dei portoghesi: la foce del Paranà alla fine di quel gigantesco fiordo potrebbe essere la via d’accesso alla mitica Sierra de Plata, il Paese dell’argento la cui esistenza è stata ipotizzata da alcuni esploratori tra cui Amerigo Vespucci. E in preda a facile entusiasmo gli spagnoli ribattezzano il Mar Dulce di Juan de Solìs col più altisonante Rio de la Plata (dell’argento) nonostante poi di argento in Argentina non ne verrà trovato neppure un grammo. Il 2 febbraio 1536 Mendoza fonda dunque una città sulla costa sud del Rio de la Plata e, non si sa se per esplicita volontà di Carlo V – devoto alla Madonna – o perché dell’equipaggio facevano parte numerosi marinai sardi, il nuovo centro viene battezzato Ciudad del Espíritu Santo y Puerto Santa María del Buen Ayre in onore di quella statuina della chiesetta di Bonaria.
Ma la vita da quelle parti, una volta partite le navi di Mendoza, si rivela difficilissima e le poche decine di abitanti rimasti a presidiare il nuovo villaggio vengono in pochi anni spazzati via dagli indigeni, dalla fame e dalle malattie. Bisogna attendere altri quarant’anni circa perché la città venga rifondata, stavolta stabilmente. Ci riesce l’avventuriero Juan de Garay che l’11 luglio 1580 nell’esatto luogo ove sorgerà la Plaza de Mayo, posa la prima pietra della Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Nuestra Señora de los Buenos Aires, rimarcando ancora di più l’antico legame con la protettrice dei marinai. Gli uomini di Garay, gente dotata di occhio fino per certe cose, si accorgono di una situazione quantomeno curiosa: cavalli e bovini portati lì con la prima spedizione di Pedro de Mendoza vivono in gran numero allo stato brado essendosi liberati da soli dopo l’abbandono della città 30 anni prima. Evidentemente quelle gigantesche praterie – le pampas – alle spalle della neonata Buenos Aires sono di loro gradimento e subito Juan de Garay si premura di liberare altri cavalli e cinquecento capi di bovini che in pochi anni si riveleranno la fonte di un primo, importante circuito economico locale. La Baires dei primi secoli è una realtà dura e povera, la città più a sud del Nuovo Mondo, un porto di frontiera con pochissime risorse e quella soverchiante prateria alle spalle, territorio poco incline ad essere coltivato, adatto all’allevamento forse ma minacciato di continuo dalle incursioni dei nativi.
Gli abitanti, sottoposti alle imposizioni del Vicereame del Perù la cui capitale, la ricca Lima, è l’unica autorizzata a commerciare con l’estero, si ingegnano spesso col contrabbando del cuoio e della carne secca scambiato coi pochi navigli che sostano da quelle parti. Deve passare molto tempo prima che si formi un embrione di notabili che prenda coscienza del proprio potere e riesca a far sentire la propria voce a Madrid. Nel 1713 la Corona concede agli inglesi di importare schiavi africani in Argentina e Buenos Aires – oltre a veder crescere una piccola comunità di colore al proprio interno – comincia a intrattenere i primi scambi con i britannici. Nel corso del XVIII secolo le ricchezze dei grandi proprietari terrieri crescono parallelamente al malcontento e nel 1776 Carlo III di Spagna per allentare le tensioni fonda il Vicereame del Rio de la Plata con Buenos Aires capitale. E’ un momento topico per la città, che per la prima volta si trova proiettata sulla ribalta internazionale al vertice di un vastissimo territorio (Uruguay, Paraguay, Cile, Bolivia e parte dell’attuale Argentina). Passano pochi decenni e, approfittando del caos provocato in Europa da Napoleone i porteños proclamano l’indipendenza della loro città dalla Spagna, blitz che porterà quindici anni dopo all’indipendenza di tutta l’Argentina. Il secolo XIX, come per altre metropoli del pianeta, è quello che forgia la moderna Baires. Il giovane Paese, ancora instabile, attraversa convulsioni politiche che spesso sfociano in vere e proprie guerre civili ma la sua capitale, ancorché teatro di mille battaglie, cresce senza sosta quasi traesse giovamento da quelle tensioni. A metà secolo conta circa 90.000 abitanti, vent’anni dopo 300.000, 450.000 nel 1885 e 800.000 nel 1900 dunque una delle città più grandi e cosmopolite del pianeta. L’immigrazione dall’Europa, seconda solo a quella verso gli Stati Uniti, è alimentata dalla continua ricerca di manodopera per gli allevamenti e per la costruzione di infrastrutture portuali e ferroviarie, per colonizzare territori vergini o edificare nuove città nell’interno. I nuovi arrivati si adattano a vivere in agglomerati di piccole case con un cortile interno a comune, i conventillos, che spesso si riveleranno fatali durante le epidemie di colera o febbre gialla della seconda metà del XIX secolo.
Intanto la città si arricchisce di nuovi palazzi, gallerie coperte come nella coeva Parigi, belle vie e pregevoli istituzioni culturali. Ecco, la cultura, soprattutto quella popolare, germoglia con la lingua – lo spagnolo è soprattutto gallego, galiziano, mentre dalla mezcla fra i tanti idiomi nasce il lunfardo, gergo dei bassifondi, segno di vitalità, di forte caratterizzazione del luogo – fra i caffè, concepiti come a Vienna e Parigi in luoghi ove curare spirito e intelletto e germoglia con il tango, fenomeno squisitamente porteño come il jazz a New Orleans, lo swing a New York o il blues a Chicago. Nato come tanta arte ottocentesca fra taverne e bordelli, il “sentimento di malinconia che ci fa ballare” (J.L. Borges) è la colonna sonora di una città ai confini del mondo che ha finalmente realizzato sé stessa in un miscuglio di sensualità francese, machismo iberico, nostalgia mitteleuropea, vernacolo italiano, la raffinata espressione corporea di un nuovo popolo nato da mille esili, mille miserie, mille sofferenze lontane. Nel 1910 intanto la città conta 1.300.000 abitanti di cui almeno 300.000 italiani provenienti da tutta la penisola e in particolare dalla Liguria (si dice che il quartiere La Boca prenda nome dal borgo marinaro di Bocca di Magra vicino La Spezia). Nel 1913 si inaugura la prima linea della metropolitana e alla vigilia della prima guerra mondiale si supera il milione e mezzo di abitanti, la belle epoque colpisce anche fra Recoleta e San Telmo e Baires coi suoi caffè, i suoi teatri, la sua vita mondana, la sua musica si ritrova a pieno titolo nel novero delle grandi capitali mondiali. Amano vivere e divertirsi i porteños, l’economia tira, sobbalza come sulle montagne russe ma tira, sino al secondo dopoguerra quando gli argentini si sentono ormai la nazione guida di tutto il Sudamerica tanto che presso i più poveri brasiliani, colombiani, venezuelani si guadagnano il nomignolo di creidos, gente che se la tira.
E le classi dominanti al potere sono sempre le stesse, a dispetto di una società che cambia investita anch’essa dalle brezze delle rivoluzioni degli anni ’60. Ed eccoli gli effetti di queste smagliature sociali nel populismo di Pèron ed Evita, nelle croniche debolezze della politica, nelle frequenti altalene economiche, nell’eversione dei Montoneros sino alla violentissima dittatura militare del ’76 che anestetizzerà le esistenze soprattutto qui a Baires. Antica e moderna allo stesso tempo oggi la capitale argentina è una specie di coincidenzia oppositorum, una caldera di situazioni e sensazioni differenti e antitetiche, volatili, difficili da afferrare, una galleria di strani deja vu. Ordinata all’apparenza, con le sue quadras regolari di città coloniale, in realtà arruffata a sufficienza con i sedici milioni di abitanti dell’area metropolitana che cingono una striscia di terra che va dalla Boca a sud a Recoleta a nord con in mezzo Microcentro e la Casa Rosada. Densità e qualità abitativa ora da sud del mondo ora da città giardino, le villas dell’hinterland si susseguono ininterrotte, ognuna con la sua anima e il suo carattere, difficile trovarvi quaggiù una classe media degna di tal nome. Anche dietro la stazione degli autobus di Retiro, proprio di fianco alla vecchia stazione dei treni ora in disuso dopo il default economico del 2001 si intravede la Villas Miseria omonima (favelas di qui) popolata da gente che allora non ce l’ha fatta. Certo c’è stato Borges, c’è stato Gardel, c’è stato Piazzolla e persino Videla ma probabilmente la sintesi del carattere di Baires è racchiusa nelle sue due effigie pop più famose, Evita e Diego, che spesso si incontrano per le strade di San Telmo, La Boca o Palermo. La classe, la seduzione e la dolcezza da una parte, il genio, l’eccesso e la sregolatezza dall’altra, i due porteños che più hanno incantato il mondo con il loro talento un po’ guascone, con il loro fascino un po’ ruffiano. Quello che dopo secoli di studio, sudore e lavoro distillano solo qui, a Buenos Aires.