Ha fatto scalpore la dichiarazione di Bill Gates sull’opportunità di tassare i robot. Il suo ragionamento si basa su una logica stringente, sebbene discutibile: queste macchine sostituiranno progressivamente i lavoratori i quali, percependo un salario, pagano anche le tasse in percentuale. Ciò provocherà una riduzione del gettito fiscale e l’impoverimento di fasce consistenti della popolazione. Ecco perché occorre tassare sia le aziende che costruiscono i robot, sia quelle che li utilizzano all’interno del processo produttivo. Le somme ricavate dovranno essere destinate a finanziare i sussidi per la mole crescente di disoccupati, altrimenti si determinerà una caduta della domanda e l’innesco di cicli sempre più pesanti di recessione economica.
Questa posizione ha scatenato un dibattito suggestivo. Voci di segno opposto si sono già levate a confutare la tesi del fondatore della Microsoft. C’è chi, come Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera, sostiene che la robotica produce valore, riducendo i costi e aumentando i ricavi. Quindi, i produttori di sistemi automatici dovranno pagare più tasse, così il cerchio si chiuderà. Del resto, l’avvento dell’informatica ha portato sviluppo creando nuovi settori e filiere, che hanno compensato la perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali. Se allora fossero stati tassati pc e software, come chiede oggi Gates per i robot, cosa sarebbe accaduto?
La questione è seria, il dibattito è aperto. Qualsiasi riflessione non può che partire dai dati oggettivi. Secondo uno studio commissionato alla Federation of Robotics, nel 2020 saranno fra i 10 e i 14 milioni i posti di lavoro generati dai robot, ma due ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, stimano invece che nei prossimi 20 anni il 47% dei posti di lavoro negli Usa sarà automatizzato. Significa che un lavoratore su due resterà a casa. Intanto, il World economic Forum prevede che entro il 2020 se ne perderanno già 5 milioni. Quanto all’Italia, i numeri ci dicono che ci sono 155 robot ogni 10mila addetti. Il nostro Paese è, dunque, al secondo posto in Europa per l’impiego della robotica e si colloca fra i primi dieci al mondo in questo settore. Aspetto non trascurabile, tenendo conto l’alto tasso di disoccupazione che ci caratterizza. Altri studiosi come Shelly Palmer, uno dei maggiori esperti mondiali di questioni tecnologiche, hanno addirittura mappato i settori economici potenzialmente più colpiti dall’automazione. Ne è scaturita la seguente classifica: impiegati e manager che elaborano dati (gestioni contabili e finanziarie); broker e venditori di beni di consumo; giornalisti e scrittori; medici e chi fa diagnosi; commercialisti e ragionieri.
Si prospettano pertanto scenari esaltanti, ma anche inquietanti. Da una parte si profila un mondo di disoccupati, espulsi dal processo produttivo, emarginati socialmente e condannati a un’esistenza segnata dalla povertà materiale e spirituale (deprivazione della dignità). Dall’altra, le “magnifiche sorti e progressive” del genere umano prenderanno corpo. L’innovazione tecnologica spinta ridurrà sì la forza-lavoro impiegata, però metterà l’acceleratore sulla produttività creando enormi margini di profitto che potranno essere redistribuiti (se ci sarà la volontà politica). Verrà alla luce un robusto reddito di cittadinanza che mitigherà la condizione degli emarginati. Inoltre, la sharing economy s’imporrà come nuovo paradigma produttivo. Una sintassi sociale, fondata su condivisione dei beni e dei servizi e disintermediazione, sarà la levatrice di un’era di crescita umanamente e ambientalmente sostenibile. Quale delle due vie prevarrà è difficile dire, date le molteplici variabili in campo, non ultime la pressione demografica impressionante e le conseguenti ondate migratorie bibliche che stanno assediando la fortezza delle società una volta opulente e oggi progressivamente macilente. Al momento, si può soltanto prendere atto dell’incombere di derive caotiche “eversive” degli assetti consolidati, degli equilibri collaudati. Nel mentre, si deve registrare il sopravvento del lavoro morto sul lavoro vivo, in una sorta di vampirismo del capitale. Fenomeno preconizzato, in una visione quasi profetica, descritta da Karl Marx nel “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, laddove il processo produttivo giunge a una fase talmente avanzata nella quale si afferma un “sistema automatico di macchine” il cui “automa è costituito di numerosi organi meccanici e intellettuali (general intellect) rispetto ai quali il lavoro vivo diviene semplice accessorio vivente di queste macchine”, per poi esserne definitivamente espulso.