Negli ultimi anni il mondo della finanza locale ha subito in Italia dei profondi cambiamenti. Il rispetto dei criteri di adesione all’Unione economica e monetaria e gli effetti della crisi sulle finanze pubbliche hanno indotto i governi che si sono via via succeduti ad adottare manovre finanziarie particolarmente restrittive. La partecipazione sempre più consistente delle Amministrazioni locali al consolidamento fiscale è avvenuta tramite l’introduzione di vincoli alle spese – correnti e in conto capitale – che hanno finito per incidere negativamente sul percorso dell’ “ormai defunto” federalismo fiscale.
La sfavorevole congiuntura economica, lo scetticismo rispetto ad un utilizzo efficiente delle risorse da parte degli organi di governo territoriali e la necessità di ridurre il perimetro finanziario dell’intervento pubblico hanno indotto lo Stato centrale ad innalzare i vincoli di bilancio delle Amministrazioni locali (principalmente attraverso il Patto di Stabilità Interno), a indurre il contenimento della spesa in conto capitale (anche tramite l’inasprimento dei limiti all’indebitamento) e a introdurre la razionalizzazione della spesa corrente (per mezzo della spending review), sebbene ultimamente il Governo sia intervenuto positivamente su questo tema. Di conseguenza, misure che in fasi espansive dell’economia sarebbero state meno traumatiche e avrebbero favorito l’apertura al mercato di significativi settori produttivi, hanno condotto, in attesa di interventi sistemici di rilancio, a contrazioni quasi automatiche della spesa pubblica locale e all’emergere di tensioni tra i diversi livelli di governo.
E qui si innesta la questione dell’addizionale comunale Irpef: l’addizionale è stata istituita con il Decreto legislativo n. 360 del 30 settembre 1998, che prevedeva un’aliquota massima dello 0,50% da scaglionare in 3 anni a decorrere dal 1999. Dal 1 gennaio 2007, con la legge finanziaria, l’aliquota massima è stata elevata allo 0,8%. Da questa data in poi, viste le vicissitudini emergenziali dello stato centrale descritte sopra, si è creato un circolo vizioso che si addebita agli Enti locali.
Ma la materia è complessa e non può essere liquidata affibbiando le colpe dello status quo alla responsabilità esclusiva delle Amministrazioni locali. Se da un lato, infatti, il Governo avrebbe potuto intervenire sulla spesa derivante dal gettito Irpef dei Comuni con direttive e controlli più dettagliati, dall’altro lato gli Enti locali hanno seguito la linea dell’”arrangiarsi” o, per meglio dire, hanno fatto di necessità virtù in funzione di un mantenimento dei servizi essenziali; in una sorta di patto tacito con l’amministrazione centrale.
Come leggere, pertanto, la versione definitiva della tabella delle addizionali comunali IRPEF da utilizzare per le dichiarazioni dei redditi 2016, UNICO PF e modello 730 pubblicata quest’oggi? Dai dati del Ministero dell’Interno risulta che Il Comune di Roma detiene il record del costo per abitante dell’addizionale Irpef più alto d’Italia: si pagano infatti 154 euro per persona, inclusi i bambini e gli incipienti. I dati sono riferiti al 2014 e a giugno arriveranno quelli del 2015, ma intanto salta subito all’occhio che in cinque anni c’è stato un aumento addirittura dell’83%.
Dal 2003 al 2014 il gettito dell’Irpef per il Campidoglio è aumentato da 66,2 a 405 milioni di euro, si è dunque sestuplicato, ma non ha sortito chissà miglioramenti, perché le finanze del Comune di Roma sono sempre drammaticamente in crisi e gli abitanti sono i più insoddisfatti d’Europa (insieme ai palermitani e ai napoletani), come è emerso da un sondaggio del giugno 2015 effettuato dalla Commissione Ue tra i cittadini di 79 città europee.
Il buco nero della capitale oramai è arrivato alla cifra di 13,6 miliardi di euro. Una voragine che inghiottisce tutti i romani costretti a pagare chissà ancora per quanto l’aliquota Irpef più alta d’Italia.