Anno 1794. George Macartney, inviato dal re Giorgio III d’Inghilterra, ottiene, primo britannico, un incontro a Pechino con l’Imperatore Qianlong per sondare la possibilità di intraprendere trattative commerciali tra il suo Paese e la Cina. La missione fallisce miseramente, considerati dai cinesi gli inglesi, come tutti gli stranieri, dei barbari che nulla possono aggiungere alle grandezze del Celeste Impero. Ma quel manipolo di barbari provenienti da una lontana e uggiosa metropoli in riva al Tamigi almeno una cosa in verità la possiede, una straordinaria capacità di osservare attentamente tutto ciò che li circonda per poi trarre delle conclusioni. E osserva il Macartney che tutti quei dignitari, quegli ufficiali, quelle concubine e quei mandarini amano l’oppio, ne sono stregati, ammaliati, intossicati. In tanti a corte e nelle dimore più sontuose della capitale ma anche nei quartieri meno abbienti fumano l’oppio sottoforma di lattice essiccato secondo una tecnica che si tramanda da almeno due secoli, da quando cioè anche da queste parti, dalle Americhe si è diffusa l’usanza di fumare il tabacco.
Persino l’Imperatore è un cultore dell’uso dell’oppio, che solo in teoria distingue le classi alte dal volgo, l’individuo colto, raffinato e vagamente bohemienne dagli uomini qualunque. In realtà il vizio è diffuso oramai trasversalmente ed è considerato tale solo quando esercitato anche dai poveracci. Gli inglesi, s’è detto, prendono nota e da quel giorno intensificano la loro produzione in Bengala, e non ci vuole molto negli anni successivi a fare discreti affari sul mercato cinese dall’unico porto concesso dall’Imperatore, Canton. Ma un solo scalo agli europei non basta, c’è da commerciare con un intero continente, diamine! Anno 1832, un clipper della Compagnia delle Indie solca le torbide acque del Mar Cinese Orientale navigando sottocosta. Obiettivo della missione è trovare nuovi potenziali scali nel Paese asiatico oltre a Guangzhou, la Canton di cui s’è detto. La Compagnia britannica è come una piovra che dal 1599, anno della sua fondazione, estende i suoi tentacoli ovunque ne abbia occasione e da piccolo ufficio di trentacinque impiegati con sede unica a Londra, in 233 anni è cresciuta sino a diventare la prima multinazionale della Storia. Un vero e proprio Stato nello Stato con possedimenti a tutte le latitudini, attività di lobbies presso le corti di mezzo mondo compreso il parlamento inglese e un esercito privato di 200.000 soldati capace di incutere timore a chiunque dal Corno d’Africa alla penisola indocinese.
L’equipaggio del clipper segnala meticolosamente pregi e difetti delle località incontrate, tanto più che si dovrà agire in stato di semiclandestinità non essendo affatto propensi alla corte di Pechino a concedere ulteriori aperture agli stranieri. Si segnano sulle mappe tanti approdi, tra cui una cittadina di circa 150.000 abitanti quasi alla foce dello Yangtze, il Fiume Azzurro, su un’ansa di un suo affluente, il Huangpu, ugualmente navigabile ma più riparato e nascosto dagli sguardi di chi imbocca il delta dall’oceano. Shan-ghai – come chiamano i cinesi quella località che significa “sopra le acque” – piace agli inglesi. Certo è fuori mano rispetto alle loro rotte abituali, qui siamo quasi di fronte a Corea e Giappone, ma la città si trova proprio all’imbocco del fiume più grande della Cina, una vera e propria autostrada naturale che taglia in due il Paese in direzione estovest mettendo in relazione fra loro milioni di individui. Per una talassocrazia come la Gran Bretagna che sta costruendo la sua potenza sopra i commerci a grande scala non si può chiedere di meglio ma per poter collocare un proprio ufficio di rappresentanza a Shanghai – almeno alla luce del sole visto che i traffici veri e propri cominciano quasi subito con la compiacenza di numerosi amministratori locali – gli inglesi dovranno attendere la fine della Prima Guerra dell’Oppio (1839- 1842). Fu questo un vero e proprio conflitto armato tra la Compagnia delle Indie e il Celeste Impero.
Da una parte la sempre più forte volontà di penetrazione nel mercato cinese con il cotone americano e soprattutto con l’oppio vista la forte domanda del sudest asiatico e non solo, dall’altra il tentativo – non poco ipocrita visto l’uso smodato che ne facevano le classi agiate – da parte della dinastia Qing di stroncare un fenomeno commerciale certo ma che cominciava ad avere risvolti preoccupanti nella società cinese che, prima al mondo, dovette fare i conti con la piaga della tossicodipendenza. La guerra terminò con l’umiliazione della Cina che dovette sottostare a tutte le richieste dell’Inghilterra che riuscì ad ottenere la definitiva liberalizzazione del commercio dell’oppio, il possesso diretto di Hong Kong, un’isoletta alla foce del Fiume delle Perle da cui controllare il viavai dei traffici per Canton poco distante, e soprattutto l’apertura di una propria concessione – cui si aggiunse poco dopo quella francese e statunitense – nella città di Shanghai. Comunque la si pensi sul colonialismo comincia qui l’epopea della “Parigi d’oriente”, fino a quel momento una località marginale nelle dinamiche socioeconomiche cinesi se si esclude la presenza di una discreta industria tessile. Saranno inglesi e francesi a schiuderne le potenzialità facendone uno dei più importanti scali merci di tutta la Cina e la più importante piazza finanziaria di tutta l’Asia.
A metà XIX secolo – solo otto anni dopo la fine della Guerra dell’Oppio – la popolazione raddoppia a 300.000 abitanti cui nei successivi 50 anni se ne aggiungono altri 400.000 portandola all’alba del XX secolo ad essere se non fra le più grandi città del mondo sicuramente fra le cinque-sei più cosmopolite. A Shanghai vivono o si incontrano inglesi e francesi ovviamente ma anche portoghesi, olandesi, giapponesi, americani, italiani, tedeschi, coreani, russi e tutte le varie etnie che compongono il mosaico dei popoli asiatici. Il fascino “blasé” della “Perla d’Oriente” si coagula nel Bund, l’elegante e chiassoso lungofiume dove si fanno affari, sbarcano le merci, ci si incontra per lavoro o per piacere e dove affacciano le architetture classicheggianti o art-déco di rappresentanza delle varie agenzie del mondo. Ovviamente c’è un prezzo per tutto questo e il mercato dell’oppio a Shanghai raggiunse entità tali da farla definire da alcuni studiosi la prima economia della Storia basata sul narcotraffico. Probabilmente è un’affermazione esagerata che sminuirebbe le tantissime iniziative imprenditoriali internazionali che sorsero in città ma è innegabile che le fumerie del famoso lattice del “papaver somniferum” erano diffusissime e frequentatissime tanto dai cinesi che dagli occidentali e lungo il Fiume Azzurro il traffico di imbarcazioni che trasportavano l’oppio alle grandi città a monte era notevole.
Ovviamente accanto a questi luoghi di “spensierato ritrovo” sorgevano numerose attività collaterali e l’offerta di prostitute per tutti i gusti e le tasche non mancava, anzi. Certo è che tutto questo fiume di danaro doveva essere reinvestito in qualche modo ed ecco il motivo dell’ascesa di Shanghai come piazza finanziaria di prim’ordine in Asia e nel mondo. Warren Delano ad esempio, nonno di Franklin D. Roosevelt il tre volte presidente degli Stati Uniti d’America, era già a Canton come trafficante d’oppio prima che questo venisse liberalizzato, in seguito spostò i suoi affari a Hong Kong e Shanghai. La città intanto continua a crescere e prosperare, attirando certo capitali e popolazione ma anche idee, istituzioni e mentalità di tipo occidentale. Vengono creati parchi, musei, biblioteche, un ippodromo, un palasport e l’alta borghesia cinese manda i propri figli alle scuole francesi. Si tratta certo di una metropoli coloniale (a metà anni ’30 conta già 3,5 milioni di abitanti) con la distinzione che possiamo immaginare fra i quartieri occidentali e le periferie destinate ai lavoratori cinesi ma non manca come detto una larga fetta di “middle class” mista, la cui fama travalica i confini nazionali visto che allo scoppio della Rivoluzione Bolscevica giungono in città numerosi profughi dalla Russia tra cui 20.000 ebrei cui si aggiunge una importante seconda ondata di tedeschi dopo l’avvento del nazismo in Germania. Insomma, sarà stata pure la capitale dell’allora narcotraffico ma non si può negare che nella Shanghai di fine ‘800 e del primo ‘900 si traffichi anche con le idee.
Nel luglio del 1921 – curiosa coincidenza col Partito Comunista Italiano – nella scuola femminile del quartiere francese in Sichuan Road, poco distante dal Bund, viene fondato da poche decine di baldi giovani il Partito Comunista Cinese. Si noti “nel quartiere francese”, il che significa che se vi erano steccati dovevano essere ben labili. Con l’avvento davvero del regime comunista nel 1949 e la fuga delle imprese e dei capitali stranieri a Hong Kong (le navi partivano dal Bund tra gli slogan urlati dai giovani del Partito: “buoni o cattivi andate via tutti!”) Shanghai imbocca un tunnel di grigiore, conformismo e miseria. Anche sotto il maoismo rimarrà sempre una città industriale – ma ormai tutti abbiamo imparato a conoscere il volto delle realtà industriali sotto i regimi comunisti – ma riuscirà a conservare anche la sua vocazione di laboratorio di idee e nuovi fermenti. Da qui infatti verranno fuori numerosi componenti dei quadri del Partito che giungeranno a guidare il Paese sino a Pechino. La terza vita di Shanghai – se si mettono in fila l’esperienza coloniale e quella comunista – comincia nel 1991 con l’avvio delle riforme economiche comunque dirette dal Partito. Le forze sotterranee della metropoli, negate e represse per troppi decenni, vengono nuovamente liberate e oggi Shanghai rappresenta il volto dinamico della nuova Cina, talmente dinamico da generare sentimenti contrastanti che vanno dall’entusiasmo allo sconcerto, sino a una sorta di strisciante sgomento. Di fronte al Bund, sulla sponda opposta del Huangpu, sino al ’91 non c’era niente, solo campi semiabbandonati; oggi è atterrata una Manhattan del III° millennio che ospita una city tanto avveniristica e fredda da far apparire tenere e romantiche le sedi delle agenzie finanziarie di fine ‘800 sul Bund. Nel 1993 a Shanghai non si sapeva cos’era la metropolitana. Oggi esistono 16 linee pulite e funzionali che riescono a trasportare punte di nove milioni di passeggeri al giorno.
Dai sette milioni del 1990, comunque una città ragguardevole, la megalopoli oggi è colata come una lava tutt’intorno alle piane e alle rive circostanti sino a raggiungere i 30,5 milioni di abitanti raccordati da treni, autostrade urbane e reti dati ultramoderne. La tecnologia digitale si sta rivelando una grandissima alleata sia dell’innovazione che delle paranoie da controllo del regime. Il famigerato “credito sociale” si sta applicando a Shanghai persino alla raccolta differenziata e chi non segue maniacalmente le regole che si apprendono scansionando un QRcode sulla confezione di ogni bene acquistato rischia pesanti declassamenti del suo rating sociale agli occhi del governo. Il “grande balzo in avanti” che voleva fare Mao negli anni 50-60 e che si rivelò un disastro immane per i cinesi pare invece si stia compiendo oggi grazie a una innaturale saldatura tra comunismo e turbocapitalismo. I frutti si vedono e almeno in apparenza paiono pure buoni con milioni di cinesi usciti dalla povertà negli ultimi decenni ma la domanda che sorge, osservando le avveniristiche luci dell’immensa, imperturbabile e invincibile Shanghai di notte, è: dopo l’oppio nel XIX secolo, nel III° millennio il prezzo da pagare sarà forse una dorata distopia da controllo totale?