Se cinque secoli fa un grande albatro avesse sorvolato la parte terminale della pianura del Kanto, avrebbe osservato dall’alto una enorme e silenziosa palude verde digradante da nordovest, generata dalle frequenti esondazioni di tre fiumi bizzosi come l’Edo, il Tama e l’Arakawa che allora si gettavano impetuosi sulla sponda ovest di una baia che un giorno sarebbe stata battezzata in onore della più grande megalopoli del globo. Senz’ombra di dubbio il nostro grande albatro oggi non riconoscerebbe per niente quelle sponde e quella piana se non per le creste del Fuji e degli altri monti a corona, quelle sì, immote da milioni di anni. La storia di Tokyo incomincia fra le canne e le acque salmastre di questa palude dove, sin dal XII secolo, sorgeva un piccolo villaggio di pescatori chiamato Edo, toponimo più o meno traducibile in estuario.
Nel 1457, mentre la lontana Europa si dibatteva fra il trauma della caduta di Costantinopoli in mano turca e il prossimo avvento dell’era delle grandi scoperte per mare, un signore feudale (daymo in giapponese) costruì presso Edo una prima cittadella fortificata. Si trattava di una delle tante nel Giappone del tempo, paragonabile al castello di un feudatario dell’Europa medievale, sicuramente un avamposto rozzo e insignificante in confronto alla magnificenza delle coeve Kyoto – sede imperiale – e Osaka – primo porto commerciale del Paese. Ma è ai piedi del Fujiama, su quella vasta pianura che termina con una malsana palude, che il destino del Giappone ha deciso di compiersi. Il seme da cui germoglierà Tokyo sarà vangato con la forza e bagnato col sangue. Nell’ottobre del 1600 Tokugawa, signore di Edo, guida l’Armata Orientale alla vittoria nella battaglia di Sekigahara, successo che nel 1603 gli consente di essere nominato Shogun (signore della guerra) dall’Imperatore e di portare a compimento l’unificazione – e la conseguente pacificazione – di tutto il Paese.
Di fatto la corte di Kyoto è nelle sue mani, è lui a comandare il Giappone dal suo castello di Edo. Ma è qui che la dinastia Tokugawa dimostra tutta la propria lungimiranza. Al fine di prevenire future ribellioni e congiure che avrebbero rigettato il Regno nuovamente nel caos, lo Shogun impone alle famiglie dei feudatari di risiedere a Edo e anche gli stessi feudatari avranno l’obbligo di trascorrervi un certo periodo di tempo nell’arco dell’anno. Questa mossa squisitamente politica, che di fatto rende ostaggi dello Shogun i famigli dei vassalli, avrà decisivi riflessi socioeconomici sull’anonima cittadina della baia che diverrà nel giro di qualche decennio il più importante centro del Giappone e nel XVIII secolo la più popolosa città del globo con oltre un milione di abitanti. L’afflusso obbligato di vere e proprie corti feudali da tutto il Paese, ciascuna col proprio seguito di artigiani, servitù e capitali, innescherà uno sviluppo economico senza precedenti sia per Edo che per tutta la piana del Kanto – bonificata nelle zone più vicino al mare e coltivata nel retroterra per sfamare una popolazione sempre più numerosa – tanto impetuoso da caratterizzare quasi tre secoli di storia giapponese, il Periodo Edo, dal 1603 al 1868.
È in questa fase che il Giappone conosce l’ascesa di quella classe che, con i dovuti distinguo, può essere accostata alla borghesia europea e che trova la propria ragion d’essere nella prorompente vitalità di Edo. La corrente artistica dell’ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) si sviluppa in questo nuovo e stimolante milieu dove, per mondo fluttuante si intende certo la poetica leggerezza della tecnica utilizzata dai vedutisti nipponici ma anche quella nuova realtà urbana fatta di affaristi, commercianti, artigiani, artisti, locandieri, tenutarie, portatori di una visione della vita e dei rapporti fra esseri umani profondamente diversi rispetto alla immota e tradizionale società giapponese, composta quasi esclusivamente da soldati e contadini. Ancora oggi Tokyo – capitale orientale, sarà questo il nuovo nome di Edo dal 1868 col trasferimento della corte dell’Imperatore da Kyoto – sembra trarre vigore da queste spinte quasi contrapposte emerse durante il Periodo Edo: il magnetismo esercitato su tutto il Giappone, imposto con la forza e la violenza nel lontano 1600 e mai messo in discussione e la raffinata e leggera poesia del mondo fluttuante, nata qui a metà ‘700 e con cui la città interpreta ancora sé stessa ogni giorno.
Oggi Tokyo – che non esiste come municipalità autonoma, organismo soppresso nel 1943 e fuso con la Prefettura del Kanto (sorta di Provincia) – conta 40 milioni di abitanti distribuiti su un emiciclo di circa 70 km di raggio adagiato sulla Baia. Stiamo parlando della più vasta area metropolitana della Terra – 13.500 kmq di estensione, quanto la Campania – formata da 23 distretti (i quartieri storici di Tokyo) e 88 città conurbate, capillarmente servite da impressionanti reti infrastrutturali che, come un efficiente sistema nervoso, consentono la reale esistenza di questa immaginifica creazione artificiale. I giapponesi la chiamano Tokyo-To, la Grande Tokyo. Quasi distrutta del terremoto del 1923 e quasi rasa al suolo dai bombardamenti americani del marzo 1945, la città è sempre riuscita a rialzarsi, più forte ed efficiente di prima. Soprattutto dopo la II Guerra Mondiale si è cercato di governare quella che si immaginava sarebbe stata una ricostruzione impetuosa spinta dai capitali statunitensi pianificando già allora una metropoli policentrica con linee di sviluppo in anticipo di almeno 40 anni sulle tendenze urbanistiche successive.
Se oggi salite sulla Tokyo Sky Tree, la torre più alta della città – e la seconda del globo coi suoi 634 metri – potrete vedere coi vostri occhi l’effetto del policentrismo nelle numerose selve di grattacieli che puntellano qua e là un panorama fatto sostanzialmente di edifici bassi. Ovviamente l’efficienza di questo modello è supportata da leggi e regolamenti che poggiano su un solidissimo civismo delle popolazioni ivi residenti. Una tale concentrazione di esseri umani in un fazzoletto di terra relativamente grande può comprensibilmente trasformarsi in un inferno per chi ci abita, come dimostrano la maggior parte delle megalopoli del terzo mondo. Grazie a quella che probabilmente è la più efficiente rete di trasporti urbani e suburbani del mondo, nei 23 distretti cittadini è vietato acquistare un’autovettura se non si dimostra di possedere un box auto mentre le grandi aziende pagano l’abbonamento dei mezzi pubblici ai propri dipendenti.
La raccolta differenziata è religione, tanto che camminando per strada nelle trafficatissime Shinjuku o Shibuya non troverete l’ombra di un cestino per rifiuti nonostante la parossistica pulizia e decoro urbano: tutti debbono portarsi cartacce, lattine o scarti di cibo a casa e occuparsi lì, con scrupolo, della loro selezione che la Municipalità provvederà poi a riciclare o smaltire negli 8 termovalorizzatori a servizio della metropoli. I parchi urbani sono curatissimi e sicuri ed è sorprendente ogni anno osservare l’emozione quasi infantile dei giapponesi di fronte alla fioritura dei ciliegi. Per strada o nelle stazioni incontrerete molti bambini che rincasano da scuola soli, segno dell’estrema sicurezza di cui possono godere anche le fasce più deboli della popolazione, tanto che persino sui treni della metro sono in molti ad abbandonare la borsa del pc sopra il portapacchi e schiacciarsi un pisolino senza timore di essere derubati.
Potrebbe capitarti, una sera a Tokyo, di trovarti nei vicoli del Golden Gai tra uno sbuffo di fumo, l’aroma di ottimo scotch e il vociare civettuolo di due tenerissimi occhi a mandorla, potrebbe capitarti di sollevare lo sguardo e vederti sovrastare dall’acciaio luminescente dei grattacieli di Shinjuku tra le brume della notte. Ricordati in quell’istante che stai assistendo al dolcissimo e speciale incontro fra Blade Runner e il mondo fluttuante dell’antica, magica Edo.