Cosa hanno in comune un dandy di provincia come Filippo Tommaso Marinetti, un jazzista di colore texano come Ornette Coleman e un giovane fotografo newyorchese alle prime armi come Neil Leifer? Nulla.
Eppure, fra l’infinito e vorticoso fluire di energie psicofisiche profuse dagli uomini di ogni tempo e luogo, c’è un punto in cui si sono incontrati la poetica vigorosa e cinetica del primo (il dandy), l’apparente caos del free jazz del secondo (il jazzman) e la prontezza d’occhio e d’indice del terzo (il fotografo). Neil Leifer, una sera di maggio del ’65 in un’anonima e sonnacchiosa cittadina del Maine, con la pellicola a colori della sua Rolleiflex a flash stroboscopico ha catturato per sempre questo strano, magico happening.
Violenza come sola igiene del mondo e Free Jazz. L’energia violenta del Futurismo, perché questo era il futuro, e quella esplosiva dell’album di Coleman che apre il decennio e crea un solco, una pioggia di note solo in apparenza senza senso, in realtà profondamente liberatorie e rivoluzionarie. Maggio 1965, St. Dominic’s Hall di Lewiston, Maine. Incontro chiacchierato, anzi chiacchieratissimo e per questo rifiutato da realtà ben più grandi. Si sospettano le mani della mafia dentro i guantoni, si temono disordini pesanti dopo l’assassinino, tre mesi prima, di Malcom X, cui Clay era molto legato. Quel Cassius Marcellus Clay da Louisville, Kentucky, che da poco più di un anno si fa chiamare Muhammad Alì ed è entrato a far parte della Nation of Islam. Sul ring di Lewiston Alì concede la rivincita a Charles Sonny Liston, nato nigger nelle piantagioni di cotone attorno a Sand Slough, Arkansas, tredicesimo di venticinque figli. I due si sono già incontrati nel febbraio di un anno prima a Miami a ruoli invertiti e le attese degli addetti ai lavori per questa rivincita sono altissime. Finalmente suona la campanella sul quadrato della St. Dominic Hall e al secondo minuto del primo round, ancora in piena fase di studio, Liston viene messo al tappeto da un colpo alla tempia a metà fra un jab e un montante, un fulmine che passa alla storia come the phantom punch.
Tutti i fotografi presenti in sala avrebbero voluto immortalare l’esatto istante dell’impatto di quel pugno e anche Neil Leifer, che si trova dal lato giusto del ring, si maledice perché è ancora lì ad arrotolare il suo rullino. Pazienza, ripunta la sua Rolleiflex, inquadra l’obiettivo e preme di nuovo. E’ questo lo scatto che immortala sì l’evento certo, ma soprattutto gli eventi di quell’intero decennio. Quel fumo che aleggia sopra il pubblico, grigio ed evanescente come i tanti misteri che avvolgeranno le vite di milioni di americani in quegli anni turbolenti, quel braccio d’ebano rinserrato e ancora carico di rabbia e potenza, gli occhi sbarrati e voraci di belva per nulla saziata, la bocca semiaperta a dare ossigeno a una fornace assetata, le vibrazioni della farfalla che danza attorno alla sua vittima insultandola e invitandola a rialzarsi perché l’ape non ha ancora sfoderato il pungiglione. Per terra un nero del passato, un pesante pachiderma della vecchia boxe, un Joe Louis diletto per un pubblico di soli bianchi.
E’ l’icona della consapevolezza questa, del nuovo nero, aggressivo, sfrontato, guascone, non più disposto a tacere bensì a lottare contro il razzismo stantio di certa America bianca. E pace se quel pugno non è arrivato perché è arrivato tanto altro, spinto da una rabbia secolare. Guardate bene, sembra la spallata ad un secolare muro di soprusi, passività, silenzio, umiliazione, frustate sulla pelle e sullo spirito, sembra di sentire l’acuto del sax di Coleman e la scelta radicale e provocatoria di un futurista
E’ l’icona della ribellione, la miccia ad una generazione che cerca alternative tra sit-in pacifisti e aperta violenza metropolitana, riots, organizzazioni semiclandestine, Black Muslim e Black Panthers, marce, concerti, solipsismi, Lsd, sperimentazione, route 66 e arrivi squattrinati all’alba in cerca di fortuna in una Penn Station trafficata e stordente. L’icona di un decennio in cui anche il Potere, il Sistema si trasformano, solo in apparenza cedendo, in realtà con-cedendo, avendo visto nuove possibilità di sfruttamento ed esercizio delle proprie prerogative secolari.
E pace se sopra queste immagini si allunga l’ombra nera della mafia, pace se puzza di dollaroni sporchi e stropicciati ma questo è l’insediamento, l’incoronazione del Re signori, colui che due anni dopo non si piegherà neppure di fronte al governo degli Stati Uniti che gli intima di andare a combattere in Vietnam.
Soprattutto questa è l’icona della boxe, dove ogni goccia di sudore è il distillato di raspi e vinacce di vite tortuose, di cuori per sempre bambini, dei vigliacchi più coraggiosi di sempre. Questo è Cassius Marcellus Clay, il Prometeo che rubò il sacro fuoco degli dèi bianchi e lo portò al suo popolo.