Con l’affermarsi di economie emergenti, il mondo cambia. Per non parlare del terrorismo, dei numerosi conflitti che ci circondano e dei problemi di sicurezza e di difesa, della lotta ai cambiamenti climatici ecc.: tutti problemi che nessuno Stato può risolvere da solo. In un momento, quindi, in cui i movimenti nazional-populisti si colorano sempre più di anti-europeismo (basti pensare all’esito del referendum inglese su brexit) non sarà forse inutile sottolineare che non c’è troppa Europa. Piuttosto, c’è troppo poca Europa. Il progetto europeo andrebbe quindi completato, se non si vuole assistere a una sua graduale disgregazione. D’altra parte, è vero anche che l’Europa (UE) che c’è, non è perfetta, né tanto meno esente da eurosprechi, ragion per cui trovo interessante il recente libro di Roberto Ippolito Eurosprechi (Chiarelettere), buon punto di partenza per ulteriori approfondimenti. Io stessa – da anni – sostengo che bisogna rivedere anche come sono spese le risorse Ue (per fognature senza sbocco?…) – per fare cosa, e come – e che non basta una correttezza formale dei conti. Bisogna prestare più attenzione a cosa si realizza.
Quanto al futuro dell’Europa – innanzitutto – c’è da riprendere a crescere, e se possibile, senza debiti. E ci sono problemi strutturali da risolvere, con misure – e infrastrutture – per energia, ambiente, trasporti (verdi), economia circolare, digitalizzazione, crowd e share economy, job / e imprese creation ecc. Servono quindi più investimenti, di quanto già previsto dal Piano Juncker. Ma, forse, c’è anche da rivedere il Fiscal compact (adottato con un Accordo intergovernativo) e altri Patti. E c’è da uscire da regole di bilancio troppo stringenti, se necessario anche con una sospensione temporanea delle regole. In altri termini, c’è da tornare ai Trattati, al rispetto dei diritti umani, e ai veri valori del processo d’integrazione europea avviato dai padri fondatori. Inoltre, (personalmente) concordo con chi ritiene che c’è da concentrarsi ( lasciando la porta aperte a tutti i Paesi che vorranno aderirvi) innanzitutto sull’Europa dei 19 dell’Unione economica e monetaria (UEM), completando l’Unione economica e bancaria, e l’Europa fiscale e dei capitali. Sì, quindi, alla Cooperazione rafforzata – purché non diventi una cooperazione à la carte, e a macchia di leopardo – e purché sia intesa quale Nucleo aperto ad altre adesioni.
L’Unione economica e monetaria-UEM (attualmente cooperazione rafforzata tra 19 Paesi) va completata. E andrebbe trasformata in UEMS (Unione economia monetaria e sociale). Agli altri paesi dell’UE a 28 – 27 senza gli inglesi dopo Brexit – va invece chiesto il rispetto dei principi, dei valori, e delle regole dei trattati. Non è possibile avere una moneta unica e 19 politiche di bilancio. Unione fiscale significa anche regole comuni di bilancio, accordo sia sulle uscite (politiche di bilancio), sia sulle entrate (v. anche questione delle risorse proprie dell’Unione). Con una politica fiscale coordinata? O piuttosto – per evitare dumping fiscale – con un’armonizzazione dei livelli di imposizione, e delle basi imponibili? La recente proposta della Commissione Juncker di armonizzazione della base imponibile delle imprese – è un esile segnale nel giusto senso.
E ricordiamoci anche che nel 2017 – come precisava il Rapporto Monti – nell’UE gli oneri fiscali sul lavoro “hanno rappresentato, in media aritmetica, il 46% delle entrate fiscali, contro il 9,8% delle imposte sul reddito delle società”. E’ in questo contesto che – nel luglio 2016 – la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica sul pilastro europeo dei diritti sociali, allo scopo di raccogliere indicazioni e posizioni di altre istituzioni dell’Unione europea, delle autorità e dei parlamenti nazionali, delle parti sociali, delle parti interessate, della società civile, degli esperti del mondo accademico e dei cittadini dell’Unione, sulla creazione del pilastro europeo dei diritti sociali fortemente voluto dal Presidente Juncker. L’iniziativa è rivolta alla zona euro, senza tuttavia escludere altri Stati membri che intendano aderirvi. La consultazione è intesa a effettuare anche una valutazione dell’attuale acquis sociale dell’UE, per riflettere sulle nuove tendenze nell’organizzazione del lavoro e della società e per raccogliere opinioni e osservazioni sui principi individuati nella prima stesura di massima del pilastro (20 ambiti prioritari di intervento). I risultati della consultazione contribuiranno alla stesura della proposta definitiva di “Pilastro europeo dei diritti sociali” che nelle intenzioni della Commissione dovrebbe contribuire al “Libro Bianco sul futuro dell’Unione economica e monetaria”, atteso per la primavera del 2017. Una volta adottato, il pilastro dovrebbe diventare il quadro di riferimento per vagliare la situazione occupazionale e sociale degli Stati membri partecipanti e guidare i processi di riforma a livello nazionale. La consultazione è aperta sino al 31 dicembre 2016.
In realtà, l’Unione europea è zoppa di una vera politica di bilancio-fiscale-economica comune, e di sociale. Il Trattato di Lisbona ha recepito il concetto di “economia sociale di mercato” (che ha il merito di enfatizzare il ruolo delle regole del gioco), ma nella realtà – sempre più spesso – non c’è rispetto delle regole, mancano vere regole sociali, e l’economia sociale di mercato è lontana dall’esser realtà. Benché dovrebbe essere il sociale a dare un senso all’Unione economica e monetaria, il sociale è sempre stato una Cenerentola. Tuttavia, fermarsi alla moneta unica implica un triste destino. No – quindi – al dumping sociale, salariale, fiscale e ambientale: alimento dell’attuale ribellione, e disaffezione, dei popoli. Sì a una vera Unione europea – non solo economica monetaria e politica – ma anche sociale. I diritti fondamentali dovrebbero prevalere sulle libertà economiche.
Attualmente, la politica sociale rientra nelle competenze concorrenti. Il Trattato di Roma ha previsto una “armonizzazione” dei sistemi sociali. Successivamente, sono poi subentrati la strategia di Lisbona (e poi la strategia di Europa 2020 , almeno in parte erede della strategia di Lisbona) – quindi – il cosiddetto Metodo del coordinamento aperto (in un’ottica di convergenza dei sistemi) e la strategia dell’occupazione. Con l’Atto unico europeo (senza precludere progressioni verso l’alto) è nata la possibilità di norme europee – minime – per definire soglie comuni al di sotto delle quali non è possibile andare. E – di fatto la legislazione sociale europea ha finora determinato sia peggioramenti sia miglioramenti dell’esistente. Nel 1992 – con il Protocollo sulla Politica sociale allegato al Trattato – il Trattato di Maastricht ha rafforzato il dialogo sociale europeo. Il Trattato di Amsterdam ha poi incorporato il Protocollo sulla Politica sociale del Trattato di Maastricht; e ha introdotto un nuovo capitolo sull’occupazione. Il Trattato di Lisbona – dopo il rifiuto (olandese e francese) del progetto di Trattato costituzionale – ha poi attribuito alla Carta sociale europea – adottata nel 2000 a Nizza (e preceduta dalla Carta sociale dei diritti fondamentali dei lavoratori del 1989) – lo stesso valore giuridico dei Trattati. Nell’ottica di una eventuale revisione dei Trattati – oggi – c’è chi rivendica (tra l’altro) un Protocollo di progresso sociale.
A mio avviso, l’idea di un nuovo Protocollo sociale sarebbe stata di certo utile al momento della negoziazione del Trattato di Lisbona. Ma, forse, nell’attuale contesto bisogna saper andar oltre questa richiesta: tutto quanto è sociale dovrà stare nei Trattati, dovrà essere parte integrante di un’UEM (unione economica e monetaria) che diventi un’UEMS (Unione economica monetaria e socale). Come dicevo all’inizio, lo stesso J.C. Juncker ha lanciato una consultazione sul pilastro dei diritti sociali europei. Si sta passando da un’armonizzazione dei diritti nazionali – fondata su standard minimi (o massimi) e mutuo riconoscimento – a una regolamentazione uniforme delle soglie di tutela? Una cosa è certa, merita debita attenzione l’art. 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione: l’articolo prevede una parificazione delle norme sociali nel progresso, quindi, una convergenza verso l’alto. L’articolo 151 recita: “L’Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione.
A tal fine, l’Unione e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle
prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività
dell’economia dell’Unione. Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative “. E non sarà inutile ricordare che – sulla base della definizione SESPROS-EUROSTAT – le prestazioni sociali includono: malattie e cure sanitarie, invalidità, vecchiaia, superstiti, famiglia e cura dei figli, disoccupazione, abitazione, e esclusione sociale. In una sana logica di sussidiarietà, cosa fare a livello Ue? A livello europeo – oggi – c’è già sul tappeto la proposta di Sistemi europei d’indennità di disoccupazione, in caso di choc. E’ una proposta sostenibile, e utile perché determina la rottura del principio tedesco di “No trasfert Union”. Ma attenzione a non tornare indietro, rispetto alla volontà politica (di questi ultimi decenni) di Politiche attive di lavoro (v. Agenda per la politica sociale (2000-2005), la rinnovata Agenda sociale del 2008 ecc.).