A conclusione della 33^ assemblea dell’Anci, impegnata a consacrare l’elezione del nuovo presidente, il sindaco di Bari Antonio Decaro, è stato commemorato Aldo Moro. Ricorre infatti quest’anno il centenario della sua nascita e Bari, come è noto, è stata la città in cui il leader democristiano ha mosso i suoi primi passi nella vita pubblica, in particolare con le elezioni del 1946, che lo videro non ancora trentenne eletto alla Costituente.
La cerimonia è avvenuta nel pieno della discussione assembleare, anche se nel momento prescelto è stato impossibile al neo-presidente garantire in aula la sua presenza. Nel ricordo tracciato da Giuseppe Fioroni (v. apertura di questa edizione domenicale del Giornale dei Comuni, ndr), non poteva mancare la citazione di un articolo che l’allora presidente del Consiglio nazionale della Dc scrisse su “Il Giorno” qualche giorno dopo la promulgazione del dpr 616/77 (oggi poco noto) Attorno a questo decreto, legato alla legge di delega 382/75 per la disciplina dei rapporti tra Stato Regioni e degli enti locali, si erano addensate le critiche di quanti guardavano con preoccupazione alla poderosa crescita del regionalismo.
Moro intervenne con la tradizionale meticolosità di analisi e fissò con chiarezza i limiti del processo di delega alle Regioni e agli enti locali, ribadendo con ciò il ruolo indispensabile dello Stato ai fini della rappresentanza degli interessi generali della nazione, nonché degli obiettivi di giustizia e solidarietà sociale. In ogni caso, mise un freno alle contestazioni parlando, a difesa del decreto e in vista del suocorretto sviluppo, di un “nuovo modo di essere dello Stato democratico”. In definitiva, nella sua visione il superamento del centralismo corrispondeva alle scelte compiute nell’Assemblea Costituente, tutte segnate da un confronto autentico e rigoroso tra le diverse componenti politiche.
Di seguito riportiamo il testo dell’articolo
Quello che deve restare allo Stato.
Le recenti polemiche circa il trasferimento circa il trasferimento dello Stato alle Regioni hanno dato risalto al tema del decentramento non solo amministrativo, ma istituzionale, del quale si parla da anni.
La discussione, molto viva sia in sede di costituente, sia qualche anno fa, quando si decise di passare all’attuazione delle norme, sulle autonomie, si era da qualche tempo sopita. Le Regioni erano una realtà di dimensioni limitate, sicché sembrava ingiustificato evocare, come in passato, i rischi per l’unità nazionale.
Ora invece il severo confronto che ha contrassegnato l’approvazione dei decreti legislativi rende chiaro che si tratta di un fenomeno di vaste proporzioni, di una diversa dislocazione del potere pubblico, di un nuovo modo di essere lo stato democratico. Il dibattito perciò è giustificato e non può essere giudicato meschino.
Si tratta di cose serie che devono trattate con serietà, ricordando però che punto di partenza è la piena lealtà alla Costituzione fondata sull’articolazione dello stato democratico.
L’Italia è appunto uno Stato decentrato e non accentrato. L’appassionata contrapposizione delle ragioni relative ai due modi d’intender lo Stato nella nostra epoca è ormai storia e non attualità politica. Le posizioni assunte allora dai partiti furono in qualche misura differenti da quelle che ora sono. Ma questa circostanza, lungi dall’offrire il destro per qualche puntigliosa ritorsione, testimonia la lenta maturazione dei convincimenti e induce a sottolineare l’importanza del problema e in definitiva della posta in gioco.
Ieri come oggi è largamente prevalente la considerazione che lo sviluppo della libertà nella vita sociale è stentato e inadeguato, se non vi siano una saggia ripartizione degli affari e cioè dei problemi della convivenza, un’appropriata vicinanza dell’amministrazione agli interessi in evidenzia, una conseguente significativa partecipazione dei cittadini alla gestione ella cosa pubblica.
La pressione per nuove forme di autonomia è andata crescendo di anno in anno in coerenza con un processo democratico che sempre più vasto ed intenso.
E’ poi singolare che questa spinta, per così dire, centrifuga questa accentuazione pluralistica che viene a complicare il tessuto sociale, questa correzione dell’unità mediante la varietà e la libertà si manifestino, e non solo in Italia, mentre si profila sia pure in modo tortuoso e contrastato, il passaggio dallo Stato nazionale a Stato Continentale. Perché di questo si tratta soprattutto in Europa: che si va in modo lento, pur con arresti e ritorni, verso una unità più larga alternativa alla decadenza. Ebbene, mentre questo svolgimento è in atto, si fanno più forti le spinte in senso autonomistico e diminuiscono il potere e l’autorità dello Stato nazionale.
In realtà le superiori unità che che si vanno profilando sono dettati da inderogabili esigenze di spazio e corrispondono alle dimensioni ottimali che la tecnica, l’economia e la politica mondiale vanno indicando.
Ma nello stesso tempo emerge il contesto regionale che attrae a se una massa di affari la cui trattazione sembra congeniale alle organizzazioni democratiche minori.
Non si può negare che in queste condizioni l’ambito proprio dello Stato nazionale venga eroso da una parte all’altra, dal basso e dall’alto.
Si può aggiungere che questa realtà multiforme rende forse più complicata a un tempo l’azione unificatrice della comunità o confederazione che sia e quella mediatrice dello Stato.
Ma queste difficoltà sono quelle che la storia presenta e attraverso le quali va facendo prevalere le sue ragioni.
Ci si può domandare se questo schema sia stabile, ma si può comunque ritenere che l’anello intermedio dello Stato è destinato a durare.
Bisogna mettersi in condizione di farlo funzionare per il meglio con riguardo sia alle competenze dello Stato in sé, sia a quelle che contano il contesto comunitario.
Far funzionare bene lo Stato non vuol dire contrapporre alle Regioni, ma piuttosto consentire che esso svolga, senza prevaricazione, senza alcuna contraddizione alla crescente vocazione autonomistica del paese, i suoi compiti a norma della Costituzione e quindi ponendosi come il quadro reale, e non evanescente e formale, nel quale debbono collocarsi le Regioni ed essere tutelate le ragioni di eguaglianza dei cittadini.
Quello che doveva essere dato alle autonomie alla stregua della Costituzione e della legge 382 è stato ben dato, anche se non tutte le soluzioni proposte appaiono appropriate e tali da garantire contro ecesi burocratici, che si può temere un po’ soffocanti come il centralismo dal quale ci si vuole liberare.
Ma non è di questo che ora si tratta, bensì dell’impegno politico con il quale si deve affrontare la nuova situazione e far riuscire l’importante esperienza alla quale si è dato inizio.
Ed in questo impegno, certo assai complesso, è incluso anche che lo Stato faccia senza debolezze tutto quello che rientra nei suoi compiti e quindi tuteli le proprie attribuzioni impedendo che sia compromesso il disegno costituzionale.
Più di una volta accade che le Regioni siano chiamate in causa al di fuori delle norme che ne disciplinano le competenze e anche per materie che sono di rigorosa spettanza dello Stato. Lo si fa per zelo autonomistico e per una sorta di rigida opposizione che dal Governo si volge indebitamente allo stato in quanto tale o alternativa, sovente illusoria, a un reale o presunta inefficienza dell’amministrazione pubblica, o perché si identifica democrazia con autonomia a base territoriale. Esiste certo l’istituto della delega ma esso talvolta non è appropriato e deve essere rigorosamente calibrato. Si tratta di alcune leggi sulle quali sarebbe stato e sarebbe opportuno riflettere meglio. Ma si tratta spesso di un dibattito stimolante, ma con ispirazioni estranee al quadro costituzionale nel suo significato di fondo.
Ho rilevato in questi giorni che vi è chi immagina si possano integrare i Consigli giudiziari con rappresentanze, in quanto tali, delle Regioni. Così si determina una pericolosa incertezza costituzionale e si crea disordine, a evitare il quale deve vigilare il Parlamento con superiore equanimità da un alto verso le Regioni, dall’altro verso lo stato. Più in generale si può dire che, accanto al baluardo di giustizia costituzionale, rappresentato dalla Corte, non deve mancar neppure quello del Governo e soprattutto del Parlamento. Lo Stato deve poi conservare i poteri di programmazione generale e di alta direzione politica e munirsi degli strumenti necessari per esercitarli.
Non si vuol muovere critica per il fatto che manchino così largamente le leggi quadro, sicché Regioni e Stato sono costretti tante volte a fantasticare per avere un punto di riferimento. Sappiamo tutti quanto è serrato il dibattito politico italiano. Ma si tratta di una mancanza non certo di minor conto, pericolosa per oggi, pericolosissima, se dovesse perdurare, per domani
Benchè sia, questa, materia opinabile, non posso, per parte mia, sottrarmi all’impressione che, nel pur necessario adeguamento delle strutture statali al dato regionale, non si tenga conto del fatto che, che se non si vuole del tutto privare lo Stato della conoscenza e della valutazione di quel che avviene nel suo interno, occorre che il Governo abbia occhi per vedere e orecchie per udire.
Su quali basi si potrebbe fondare altrimenti una legislazione nazionale necessaria? Su quale base potrebbe, come deve, lo Stato intervenire nelle sedi internazionali e soprattutto comunitarie, dove sono in gioco interessi nazionali che esso è chiamato a tutelare? Sono quindi giustamente da sopprimere uffici diretti a svolgere un’amministrazione che non esiste più: ma resta da vedere quali organi di conoscenza e di alto coordinamento politico dovrebbero ragionevolmente prendere il posto.
Vorrei poi sottolineare che allo Stato, nel suo insieme, nella unità, nell’esercizio cioè di tutti i suoi poteri, compete di assicurare eguaglianza e giustizia per tutte le Regioni, il che vuol di re eguaglianza e giustizia per tutto il popolo italiano.
Le Regioni valorizzando le energie locali inseriscono di necessità un coefficiente sperequativo che può essere corretto o almeno bilanciato solo dallo Stato. A questo fine non basta che siano messi in corsa con le proprie forze e la piena disponibilità di se stessi.
Occorrono particolari interventi dei quali appunto lo Stato dev’essere il promotore. Di più, nella misura nella quale esso rivendica ed esercita le sue competenze e cioè le sue essenziali ragioni di unità, fa opera di eguaglianza e giustizia e difende i diritti dei meno fortunati più che non possano fare quegli schieramenti unitari che danno talvolta la sensazione di una contrapposizione globale del sistema regionale allo Stato.
Da ultimo vorrei menzionare il tema della politica estera che deve rimanere, a garanzia degli interessi generali e come contrassegno di sovranità, a esclusiva competenza statale.
Con ciò non si intende disconoscere la dinamica propria di ogni comunità e quindi la ricchezza di esigenze e di possibilità che la vita regionale, e specie di zone di confine, offre alla iniziativa internazionale dello stato italiano. Però le particolari finalità debbono essere rigorosamente inquadrate nell’insieme e perseguite con gli strumenti appropriati che sono e debbono restare dello Stato.
Mi sia consentito di concludere osservando che tutti questi meccanismi istituzionali sono importanti e necessari, ma certo non sufficienti. Occorrono strumenti più propriamente politici, il che rende necessario l’impegno dei partiti, certo nella loro viva sensibilità autonomistica, ma anche nella loro funzione di garanti dell’unità nazionale. I partiti italiani sono tutti, salvo una rispettabile eccezione, partiti nazionali, opportunamente articolati, ma sempre nazionali.
Grande è perciò la loro responsabilità per un corso degli avvenimenti che salvaguardi l’unità dello Stato nella pluralità delle sue articolazioni, come del resto, perché si tratta in fondo dello stesso problema, delle sue istituzioni, nelle quali tutte si esprime in un sistema sapientemente equilibrato la democrazia del paese.