Le periferie sono al centro del dibattito sulla governance delle città. I Sindaci, quelli già eletti e i candidati al ballottaggio, si confrontano sulle varie “ricette” da applicare per rivitalizzare e riqualificare le aree urbane periferiche, spesso luoghi del disagio, dell’emarginazione, della criminalità, dell’immigrazione selvaggia. Lo stesso Governo ha preso coscienza del problema stanziando 500 milioni a questo scopo. Una cifra modesta che non potrà certo finanziare un’impresa titanica come quella evocata da più parti: rendere le periferie zone residenziali vivibili, sia dal punto di vista ambientale che sociale. E, tuttavia, è certamente un segno che, dopo anni di “disinteresse” da parte del Palazzo verso le sacche del degrado, si stia “cambiando passo”, come recita il mantra del premier. C’è da chiedersi, però, come si sia giunti a questo punto. Come segmenti vasti della maggior parte delle città del Belpaese abbiano subito un processo degenerativo così profondo. Ad avviare questa importante riflessione ci prova, con sapiente e informato metodo, Bruno Zanardi, pubblicando un artico sulla rivista Il Mulino (“Centri storici e periferie”).
“La parola d’ordine che gira oggi nel mondo dell’architettura è, sempre più, ‘il Novecento ha salvato i centri storici italiani, adesso bisogna salvare le periferie”. Ciò in aperta adesione, di uomini politici, architetti e intellettuali, alla nozione di ‘rammendo delle periferie’ coniata da Renzo Piano -L’autore avvia con queste parole il proprio ragionamento e aggiunge – Né di minore importanza è, per l’appetibilità dei rammendi, l’annunciata elargizione da parte del governo d’una prima tranche di finanziamenti di 500 milioni – una briciola rispetto alla immensità del problema da affrontare – vale comunque una montagna di soldi. Ciò detto, tre i problemi”.
In primo luogo, Zanardi smentisce la tesi che il secolo scorso abbia salvato i centri storici. Anzi, a causa del diluvio di divieti e vincoli imposti dall’alto, “li ha invece condannati a morte”. Tant’è che “dopo il 1972 della delega delle competenze urbanistiche alle Regioni, il numero degli abitanti e delle imprese commerciali è diminuito nei centri storici di circa il 60%… Né entro nel merito della condizione d’incipiente rovina in cui giacciono moltissimi palazzi e case semi o del tutto disabitati da decenni dei centri storici nei paesi minori della provincia italiana… Non parlo inoltre dei circa 6.000, degli 8.100 Comuni italiani, oggi deserti o rimasti con poche centinaia di abitanti, il che significa che più di due terzi del territorio italiano è abbandonato a sé stesso con gli effetti di cui tutti sappiamo…”.
La seconda questione affrontata da Zanardi riguarda il fallimento delle politiche urbanistiche, fenomeno che si sarebbe aggravato progressivamente dopo il 1972. “Fallimento – suggerisce – originato dalla distinzione – fissa nei piani regolatori – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia al contrario, flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia possa compensare la rigidità del centro storico. Quel che ha creato un abbraccio mortale delle periferie ai centri storici che ha in fine portato il tutto a un comune degrado”. A questo approccio negativo, determinatosi nella gestione del tessuto urbano nazionale, l’autore aggiunge un altro fenomeno correlato: l’ipertrofia del numero degli architetti (250mila laureati). Professionisti ritenuti da Zanardi “sempre più orfani di un’arte figurativa coeva sulle cui forme potersi confrontare, perciò sempre più costretti a fornire astratte soluzioni ideologiche all’invivibilità urbanistica e tipologica di periferie stabularie e prive di storia. Non ultime, tra quelle soluzioni, i rammendi”.
Come uscire da questo labirinto di circostanze negative e di scelte infelici di governo delle città? Zanardi non si tira indietro, non rifiuta la sfida ardua di una proposta credibile e praticabile. “Qualcuno si renda finalmente conto che l’Italia è un caso unico, se non nel mondo, certo nell’intero Occidente, nel suo essere un Paese eminentemente storico, a cominciare dalle sue città indissolubilmente legate all’ambiente su cui sono andate variamente stratificandosi in millenni – avverte – Il che significa che, in Italia, il problema non è quello di rammendare le periferie abbandonando a se stessi i centri storici perché – falsamente – “già salvati dal Novecento”, bensì progettare un’armonica ricongiunzione (o rammendo, oppure ricucitura che dir si voglia) tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio”. L’idea-forza che egli mette sul tavolo è, al contempo, semplice e complessa, indubbiamente suggestiva: “Progettare… l’abbandono della città-museo della cultura storicistica del restauro, in favore d’una città in cui è tornata la vita perché aperta in mille diversi ambiti di utilità generale. Ambiti tutti da progettare, a cominciare… dalla grande sfida d’un riuso compatibile dell’edilizia nei centri storici, quindi alla sua riprogettazione architettonica e ingegnerile, fino alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nelle tecniche di prevenzione dai rischi ambientali o nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito, eccetera) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento”.
I politici, i Sindaci, i candidati, gli architetti, gli imprenditori, sono avvertiti. Zanardi offre indicazioni interessanti e suscettibili di essere declinate e tradotte in progetti e interventi concreti, città per città, in base agli assetti e alle criticità peculiari di ogni realtà urbana. L’importante è che il rituale dibattito pre-elettorale sui “programmi”, vuoti simulacri senza contenuti effettivi, questa volta acquisisca idee e determinazioni autentiche in grado di incidere a fondo sullo “stato di cose presenti”. Non c’è più tempo da perdere. Le nostre periferie rischiano di esplodere, in quanto serbatoi di un potenziale eversivo dirompente, destabilizzando l’intero Paese.