La astratta ammissibilità di provvedimenti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro, deve essere contemperata col divieto di commistione tra profili incompatibili tra di loro (1).
In materia di abusi edilizi la peculiare natura della cd. sanatoria ordinaria, per il rilascio della quale l’Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile, non consente l’integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi.
Non è consentito sanare, né legittimare per il tramite di una semplice variante, un vizio del permesso di costruire, stante che nell’uno come nell’altro caso l’avallo postumo ha ad oggetto l’illecito, non il titolo edilizio; per intervenire sul provvedimento, infatti, occorre che l’Amministrazione agisca in autotutela che, ove si concretizzi in una convalida, avente efficacia ex tunc proprio in ragione delle sottese esigenze di economia dei mezzi dell’azione amministrativa e di conservazione, renderebbe legittimo l’intervento ab origine, senza necessità di alcuna sanatoria (2).
(1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il tema della ammissibilità di un provvedimento a contenuto plurimo che racchiuda in sé una sanatoria e l’avallo di una variante cd. “comune”, escludendola laddove non si addivenga ad una mera sommatoria di atti, ma si pretenda di attingere la finalità ad entrambi in maniera promiscua. Non esiste infatti nessuna pregiudiziale sistematica alla confluenza in un unico provvedimento di due distinte finalità, non essendo ravvisabile alcun principio o norma che la precluda. L’ordinamento contempla, anzi, pacificamente la categoria degli atti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, ma non anche sostanziale, in quanto scindibili in molteplici atti di diverso contenuto, indipendenti l’uno dall’altro. Essa tuttavia non consente la commistione di finalità eterogenee, a maggior ragione avuto riguardo alla tipicità che connota ontologicamente il permesso in sanatoria. L’istituto del cd. accertamento di conformità, o sanatoria ordinaria, nella disciplina dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (ma ancor prima in quella dell’art. 13, l. n. 47 del 1985), concerne la legittimazione postuma dei soli abusi formali, cioè di quelle opere che, pur difformi dal titolo (od eseguite senza alcun titolo), risultino rispettose della disciplina sostanziale sull’utilizzo del territorio, non solo vigente al momento dell’istanza di sanatoria, ma anche all’epoca della loro realizzazione. La sanabilità dell’intervento, in altri termini, presuppone necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non potrà non scattare la potestà sanzionatorio – repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss., d.P.R. n. 380 del 2001. Costituisce jus receptum che per il rilascio della sanatoria l’Amministrazione è chiamata a svolgere una valutazione vincolata, priva di contenuti discrezionali e relativa alla realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile. In tale ipotesi, cioè, almeno in linea generale e fatte salve le ipotesi particolari e temporanee di condono che hanno natura eccezionale e che sono state individuate con rigorosa tassatività dalle singole leggi istitutive, senza possibilità di integrazione con diverse fattispecie previste da altri corpi normativi, «l’unico schema applicabile è quello riconducibile all’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001» (Cons. St., A.P., n. 4 del 2009), cui non è equiparabile neppure il procedimento della cd. variante semplificata di cui all’art. 5, d.P.R. n. 447 del 1998, «che è invece orientato ad altra finalità, ovvero quello di semplificare o rendere più celere la modifica dello strumento urbanistico e dunque, da ultimo, favorire l’installazione di strutture produttive, con un meccanismo procedurale analogo a quello previsto dall’art. 19, d.P.R. n. 327 del 2001» (Tar Catanzaro n. 2206 del 2014; Tar Lecce, sez. III, 14 gennaio 2010, n. 146).
(2) Ha chiarito la Sezione che se l’abuso consegue (anche) alla illegittimità del titolo edilizio originario, la sanatoria non può fungere da convalida dello stesso, consentendo nel contempo di correggere l’errore dell’atto e legittimare ex post l’illecito. La convalida, infatti, avendo efficacia ex tunc, renderebbe ultronea la sanatoria, che riguarda i fatti, e non gli atti. D’altro canto, la variante in corso d’opera è ontologicamente incompatibile con un abuso non ancora sanato. Essa infatti si caratterizza come una modalità per adeguare un progetto in itinere prima della chiusura dei lavori e costituisce “parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale”. La relativa categoria concettuale è stata invero prevalentemente ricavata dalla giurisprudenza, laddove ha affermato che le modifiche, sia qualitative che quantitative apportate al progetto originario, possono considerarsi “varianti in senso proprio” soltanto quando quest’ultimo non venga comunque radicalmente mutato nei suoi lineamenti di fondo, sulla base di vari indici quali la superficie coperta, il perimetro, la volumetria nonché le caratteristiche funzionali e strutturali (interne ed esterne) del fabbricato (Cons. St., sez. II, 14 aprile 2020, n. 2381; id. 22 luglio 2019, n. 5130).
Fonte: Giustizia Amministrativa