FATTO
La Regione Umbria con legge n. 15 del 2021 è intervenuta in riforma della legge reg. Umbria n. 23 del 2003. A seguito di tale novella legislativa l’art. 39, comma 1, lettera b), della legge reg. Umbria n. 23 del 2003, che, nel testo originario, elencava, tra le cause di decadenza dall’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale sociale, la condotta dell’assegnatario il quale avesse «adibito l’alloggio a scopi illeciti o immorali» ora punisce anche la condotta dell’assegnatario (ovvero anche del componente del suo nucleo familiare, come prevede il comma 1 dell’art. 35 della legge reg. Umbria n. 15 del 2021 il quale «abbia usato o abbia consentito a terzi di utilizzare l’alloggio, le sue pertinenze o le parti comuni, per attività illecite che risultino da provvedimenti giudiziari, della pubblica sicurezza o della polizia locale». Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 2, della legge reg. Umbria n. 15 del 2021, denunciando la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere h) e g), Cost. Lamentando per un verso l’invasione della competenza statale esclusiva nella materia «ordine pubblico e sicurezza», e la genericità della norma regionale impugnata, la quale «non specifica quali siano i provvedimenti della pubblica sicurezza e della polizia locale che attestino il compimento di atti illeciti», con la conseguenza che si avrebbe «l’introduzione di un nuovo tipo di provvedimento delle autorità di pubblica sicurezza e polizia locale», rispetto agli atti tipizzati dal legislatore statale. La seconda censura riguarda il titolo di competenza legislativa statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., in quanto la disposizione regionale impugnata finirebbe con l’«introdurre indirettamente un obbligo di facere in capo al personale delle Forze di polizia», al di fuori di qualsivoglia cornice pattizia.
DIRITTO
La Corte Costituzionale dichiara non fondate le censure addotte, innanzi tutto rilevando come la disposizione impugnata, nella sua formulazione letterale, si limita a prescrivere che le attività illecite siano causa di decadenza ove risultanti da provvedimenti di pubblica sicurezza o della polizia locale. Nulla è precisato, invece, circa le modalità con le quali siffatti provvedimenti possano venire a conoscenza delle autorità locali titolari del potere di disporre la decadenza. A sostegno, la Corte, richiama significativamente il dovere di leale collaborazione quale principio immanente delle «forme di coordinamento» previste dall’art. 118, terzo comma, Cost., con riferimento ai rapporti tra Stato e regioni in tema di ordine pubblico e sicurezza. Tale dovere è anche alla base del rinnovato impegno di Stato, regioni, province autonome ed enti locali «di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali», come prescritto oggi, proprio in attuazione della richiamata previsione costituzionale, dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, in legge 18 aprile 2017, n. 48. La leale collaborazione, che in tale quadro costituisce uno degli strumenti principali per realizzare la cosiddetta «sicurezza integrata», comporta anche l’acquisizione e la reciproca comunicazione di informazioni rilevanti per la cura dei reciproci, e convergenti, interessi, attinenti ai diversi settori di intervento. Viene in soccorso in merito la giurisprudenza della stessa Corte, secondo la quale «la mera acquisizione di elementi informativi non determina di per sé lesione di attribuzioni», dovendosi ritenere, piuttosto, conforme al principio di leale collaborazione che lo Stato fornisca alle competenti strutture regionali, ovvero, se necessario, anche a quelle locali, i dati di cui sia in possesso (sentenza n. 327 del 2003; in precedenza, analogamente, sentenza n. 412 del 1994). La disposizione regionale impugnata, pertanto, lungi dall’imporre un nuovo obbligo in capo a organi dello Stato, si limita, nell’ambito della cura di un settore di propria competenza, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., afferente alla gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica (sentenza n. 94 del 2007), a considerare la possibilità che le competenti autorità locali siano informate dell’avvenuta adozione di provvedimenti della pubblica sicurezza dai quali risulti la commissione di attività illecite: come, del resto, normalmente accade nella prassi degli ordinari rapporti informativi tra le forze di polizia e le autorità locali chiamate ad adottare, sulla base di apposita istruttoria, gli atti amministrativi consequenziali. Pertanto la predetta Regione è rimasta nei confini di quello che è il cui nucleo essenziale della sua competenza ovvero la prevenzione e repressione dei reati (ex plurimis, sentenza n. 236 del 2020) senza interferire con gli ambiti che funzionalmente ricadono nella cosiddetta sicurezza primaria.
Fonte: Corte Costituzionale