Il Tribunale amministrativo per la Toscana ricorda, innanzitutto, che secondo una recente interpretazione l’omologazione del concordato chiude la procedura concordataria a norma dell’art. 181, r.d. n. 267 del 1942; dopo questo provvedimento l’imprenditore ritorna in bonis e, perciò, non vi è ragione di limitarne l’attività. L’art. 181 prevede genericamente che “la procedura di concordato preventivo si chiude… con l’omologazione” senza operare alcuna distinzione, pertanto, intervenuto il decreto di omologazione del Tribunale l’impresa non è più “in stato” di concordato né sarebbe più “in corso” la relativa procedura. Di conseguenza non operano i divieti di legge riguardo alla partecipazione alle pubbliche gare e neppure sussistono gli obblighi documentali che sarebbero esigibili limitatamente alle imprese che siano “in stato” o “in corso” di concordato (Cons. St., sez. V, 29 maggio 2018, n. 3225).
In senso contrario, è stato stabilito che la chiusura del concordato la quale, ai sensi dell’art. 181 della legge fallimentare, fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall’art. 167 non comporta (salvo che alla data dell’omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l’acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio. Questo infatti resta vincolato all’attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il Commissario Giudiziale è tenuto a sorvegliare l’adempimento secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione. Ne segue che la fase di esecuzione, nella quale si estrinseca l’adempimento del concordato, non può ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase procedimentale che l’ha preceduta (Cass., sez. I, ord., 10 gennaio 2018, n. 380) e non vi sarebbe quindi ragione per non ritenere operanti anche in tale fase i divieti di legge con riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare.
Ciò chiarito, ha aggiunto il Tar che la questione deve essere risolta non indagando gli aspetti civilistici che regolamentano l’impresa ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale, bensì a partire dal dato testuale normativo.
Le cause di esclusione dalle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici, sotto il profilo (della mancanza) dei necessari requisiti soggettivi, sono stabilite dall’art. 80 del Codice dei contratti pubblici. Per quanto rileva nella presente sede, la disposizione di cui al comma 5, lett. b) del medesimo statuisce che devono essere escluse dalla partecipazione alle gare d’appalto, tra le altre, le imprese che si trovino in stato di concordato preventivo “salvo il caso di concordato con continuità aziendale” e “fermo restando quanto previsto dall’articolo 110” del medesimo Codice. La norma quindi esclude dal proprio ambito di applicazione e, con ciò, dal novero delle circostanze espulsive la procedura di concordato con continuità aziendale.
Si manifesta quindi un contrasto tra questa disposizione e quella contenuta nella legge fallimentare, secondo cui alle imprese ammesse al concordato con continuità aziendale è interdetto partecipare alle gare d’appalto quali mandatarie di un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il conflitto tra le norme, secondo i giudici amministrativi toscani, può essere risolto secondo il criterio cronologico. La disposizione della legge fallimentare, come sopra citato, è venuta alla luce con il d.l. 23 giugno 2012, n. 83, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134. La norma di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici è invece venuta alla luce con il d.lgs. n. 50 del 2016 e, quindi, successivamente alla prima. Questa pertanto, in base al criterio cronologico di soluzione dei conflitti tra norme, deve ritenersi implicitamente abrogata.
La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 ha innovato rispetto a quanto prevedeva il previgente d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 che all’art. 38, comma 1, lett. a), comminava l’esclusione alle imprese che si trovassero in stato di concordato preventivo, senza effettuare alcuna distinzione. La differenza tra il precedente e l’attuale Codice dei contratti pubblici va interpretato quale indice della volontà legislativa di ammettere alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici le imprese che si trovino in concordato preventivo con continuità aziendale, salva restando la necessità di autorizzazione del giudice delegato (elemento che non è in discussione nella presente controversia): in tali termini può essere interpretato il rimando effettuato dal citato articolo 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici al proprio art. 110 il quale, al comma 3, prevede che “il curatore del fallimento, autorizzato all’esercizio provvisorio, ovvero l’impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato… possono: a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall’impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale”.