Pasolini lo intuì dopo dieci giorni trascorsi a casa di Oriana Fallaci, 61°strada, Upper East Side in un inoltrato autunno del 1966.
Andò via travolto da un misto di folle entusiasmo e travolgente malinconia, progettando di tornarvi il prima possibile per ambientavi un suo prossimo film su San Paolo. Era quella e solo quella la metropoli dove far sbarcare il gentile di Tarso ai giorni nostri. Aveva compreso, il minuto intellettuale romagnolo, che come era esistita in Roma la capitale incarnata dell’intero mondo antico, ora si trovava al cospetto della capitale mondiale di questa nostra epoca, di questo nostro XX travagliatissimo secolo. L’aveva capito certo da quel possente skyline in acciaio e vetro, ancora così unico in quegli anni sessanta, dalla fiaccola ardente della Statua della Libertà, dagli imponenti canyon delle avenues che non dormono mai, ma anche e soprattutto dagli equivoci bar attorno alla 42esima, dai docks abbandonati lungo l’Hudson, fra gli homeless sotto la sopraelevata del Meatpacking District o fra i maglioni colorati di studenti sorridenti ed ebbri di speranze al Village… Aveva riconosciuto quell’umanità che popola l’Ombelico del Mondo dalla notte dei tempi, quella stessa umanità che doveva strisciare nei bassifondi della Roma imperiale, nelle casbah della Dehli del Gran Moghul o attorno al Gran Bazar della Istanbul di Solimano. Pochi anni prima, un altro grande italiano, Guido Piovene, raccoglieva anche lui frammenti del suo amore per New York fra la poesia delle distese di foglie color ruggine sui prati autunnali del Central Park, al cospetto della potenza emanata dall’Empire State Building, immerso nella spensieratezza degli studenti della Columbia o innanzi alla minuta malinconia delle facciate sgarrupate e operaie di Hell’s Kitchen.
Sono stati versati – e sprecati – fiumi di inchiostro e chilometri di pellicola su New York ma nessuno può mettere in dubbio che rappresenti il “centro di gravità permanente” del ventesimo secolo, nonostante quest’ultimo, nel suo irrequieto vorticare in ogni dove dall’anno 1900 al 2000, abbia lasciato le sue luride impronte dappertutto: Parigi, Berlino, Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima, Pechino, Praga, Budapest, Nuova Dehli, Gerusalemme, L’Avana, Saigon… È a New York che è tornato e ritornato, è qui che ha progettato il mondo non solo come lo conosciamo ma proprio come lo viviamo. Perché la megalopoli tra la baia omonima e l’estuario dell’Hudson ha segnato certo la Storia del suo come di molti altri Paesi attraverso scelte e decisioni prese all’interno dei suoi numerosi centri di potere ma soprattutto ha plasmato cultura, costume, architettura, musica, letteratura, parte della pittura, del linguaggio e della moda, orientando il pensiero dell’homo occidentalis in primis e di tutte le altre sue declinazioni in epoche più recenti nel resto del pianeta. La formula di New York per imporsi nel mondo la si studia da cent’anni. Credo sia il punto fisico e temporale di incontro delle migliori energie distillate nei precedenti diciannove secoli da tutte le componenti della civiltà occidentale, una situazione, come si può facilmente comprendere, irreplicabile ai giorni nostri. E tutto è cominciato in sordina, alla fine del XIX secolo, in quell’isola a forma di fuso posta dove l’Hudson incontra l’Atlantico.
Il primo europeo ad aver varcato l’ingresso della baia di New York è stato il chiantigiano Giovanni da Verrazzano, nato ai piedi dell’Appennino e maturato fra i marinai normanni, che nel 1524 gettò l’ancora nel piccolo stretto tra l’odierna Staten Island e Long Island, galleggiando nell’esatto punto ove oggi, settanta metri più in su, sorge il grande ponte a lui intitolato. Non si spinse più in là e pensò che l’Hudson, di cui poteva ammirare la grande foce, fosse un lago. E’ solo un secolo più tardi che gli europei – olandesi – spingendosi stavolta fin dentro la baia fondano una cittadina, Nieuw Amsterdam, “acquistando” in cambio di poche cianfrusaglie per un valore di circa 60 fiorini (1.000 dollari di oggi) l’isola di Manhattan (in lingua Lenape “luogo delle molte colline”) dai nativi che la abitavano. Probabilmente rimasero sul tavolo non poche divergenze sul concetto di “acquisto” tra bianchi e pellerossa giacché i primi dovettero difendersi negli anni successivi da numerose incursioni dei secondi arrivando a issare un muro di protezione a nord del neonato centro, una semplice palizzata in legno grezzo proprio dove oggi passa la ben nota Wall Street. Palizzata che non resse all’assalto degli inglesi che conquistarono la città nel 1665 e la ribattezzarono New York in onore del Duca dell’omonima cittadina britannica, futuro Giacomo II Stuart. Le tracce del passaggio degli olandesi rimasero in toponimi importanti come Brooklyn e Bronx, in origine Breukelen e Bronk, nome di un proprietario terriero “orange purosangue” residente in quella zona, per il resto da quel momento in avanti la storia di questa città sarà inglese.
Per i successivi 120 anni New York rimarrà confinata a quella che oggi è conosciuta come Downtown, il lembo di terra all’estremo sud di Manhattan. È una cittadina coloniale, un mercato di pellicce come si può immaginare piuttosto rude, nonostante lo sforzo di dotarsi di qualche istituzione culturale, probabilmente più per scimmiottare la concorrente Boston che per vera vocazione al sapere. L’America è ancora estremamente vergine, l’entroterra è un gigantesco mistero pressoché sconosciuto, frequentato da pochissimi intrepidi – e spietati – cacciatori di pelli di castoro o di bisonte che intrattengono rapporti di reciproca convenienza con le variegate tribù di nativi in cui si imbattono. Ancora una volta, la fortuna di una futura megalopoli risiede in un grande fiume che, come un’arteria, la collega con il cuore del continente. L’Hudson non arriva proprio all’interno del Nordamerica ma nel XVIII secolo il tratto che percorre verso le grandi foreste canadesi, circa 500 km, è più che sufficiente per alimentare proficui commerci lungo le sue sponde. Ci penseranno poi gli intraprendenti padri dei neonati Stati Uniti, nel 1825, a collegare l’importante fiume con la regione dei Grandi Laghi attraverso l’Erie Canal, 580 km di via d’acqua artificiale verso ovest che spalancheranno per New York le porte delle praterie, promuovendola a città leader del commercio col Vecchio Continente e porta di ingresso principale del Nuovo.
Al momento dell’inaugurazione del Canale New York conta circa 160.000 abitanti e da un decennio ha già pianificato la sua futura espansione progettando una griglia ortogonale di 12 avenue nordsud e 155 street est-ovest che ricopre tutta Manhattan e segnerà la fortuna urbanistica della città. Unica strada che sopravvive alla rigidità della griglia è la Broadway (“strada larga” o Brede weg per i vecchi fondatori olandesi) che ricalca quasi del tutto l’antico sentiero indiano che percorreva per oltre 50 km il territorio a nord di Downtown Manhattan. Nel 1827, nel giorno dell’Indipendenza, viene abolita la schiavitù e la città diverrà meta importante di fuggiaschi neri dalle piantagioni del sud che andranno, da uomini liberi, oltreché a ingrossare le fila degli operai delle nascenti fabbriche tessili e alimentari, a fecondare il primo nucleo del centro multietnico che verrà. A metà XIX secolo la prima grande ondata migratoria dall’Europa, soprattutto irlandese, inaugura quella che sarà una delle caratteristiche di New York, rappresentare cioè l’agognato approdo di milioni di miserabili o perseguitati che muoveranno dai villaggi più sperduti d’Europa come anche da Cina, Russia, Giappone per ricominciare daccapo, in una nazione giovane, forte e a volte spietata, sì, ma che sa essere molto generosa con gli uomini intraprendenti. Da questo momento in poi e sino al secondo dopoguerra – praticamente per oltre un secolo – quasi con precisione cronometrica ad ogni crisi da questa parte dell’Atlantico (carestie, disoccupazione massiccia, guerre o rigurgiti antisemiti negli “shtetl” polacchi, russi o ucraini) corrisponderà un’ondata migratoria verso l’altra parte e tutti o quasi i nuovi arrivati vi entreranno sfilando davanti alla Statua della Libertà. Molti proseguono verso altri lidi – Chicago, Philadelphia, Detroit, Boston – ma la maggior parte si ferma qui, tra Manhattan, Brooklyn, The Bronx, o il New Jersey gettando i semi di una futura caotica e dinamica megalopoli.
I monumenti, le istituzioni e le infrastrutture di cui la città comincia a dotarsi nell’ultimo quarto di secolo – Metropolitan Museum of Art 1872, Museum of Natural History 1876, Madison Square Garden 1879, Brooklyn Bridge 1883, Statua della Libertà 1886, Flatiron Building 1902, Metropolitana 1904 – testimoniano oltreché una grande vitalità economico-culturale che le consente di primeggiare con grandi realtà urbane come Londra, Parigi e Berlino, lasciano pure intuire che New York – 1.200.000 abitanti nel 1880, 3.400.000 nel 1900 – sta acquistando consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità. All’alba del XX secolo l’Occidente si appresta a estendere il suo definitivo dominio sul pianeta, è il positivismo la religione laica su cui fonda il proprio credo e le metropoli americane si trovano avvantaggiate rispetto alle consorelle europee perché libere da incrostazioni storiche su cui possono fermentare i batteri di pericolose ideologie… E’ infatti del primo quarto del nuovo secolo lo scatto definitivo che porta New York – al riparo dalle tensioni e dai campi di battaglia europei – al vertice dell’economia mondiale con ottime prospettive di primazia persino in campo culturale. Sono gli anni dell’Art Déco che ingentilisce i grattacieli, simbolo della potenza di istituzioni pubbliche e compagnie private, sono gli anni di Manhattan Transfert e del Grande Gatsby, i romanzi dove per la prima volta la metropoli celebra e al contempo processa sé stessa, gli anni ruggenti del swing, del jazz, dell’inaugurazione dell’elegantissimo Crysler Building, icona Déco e del raffinatissimo MoMa icona dell’arte moderna. Alla vigilia del Big Crash del 1929 New York sfiora gli 8.000.000 di abitanti e la caduta di King Kong dall’Empire State Building nel 1933 sarà allo stesso tempo metafora dell’esaltazione e della fine di un’epoca.
Uno degli aspetti che rivela la coscienza di aver fondato un nuovo ecosistema – la megalopoli – con i suoi potenti simboli, le sue contraddizioni, le sue nevrosi, la sua indiscussa poetica, è proprio la grande produzione culturale che a partire dagli anni trenta celebra direttamente o ha come sfondo la stessa città. I romanzi di Capote, Dos Passos, Fitzgerald, Salinger o la street photography di autori quali Andreas Feininger, Berenice Abbott o Margaret Bourke-White che immortalano vie, grattacieli, semplici persone, ferry in una maniera che nessun’altra realtà aveva conosciuto, fa capire quanto la sensibilità artistica si sia accorta per prima di essere al cospetto di qualcosa di nuovo e grandioso. New York nel ‘900 ha imboccato per prima tutte le strade che più tardi, molto più tardi, batteranno le altre megalopoli e molte altre oggi scintillanti debbono ancora percorrere: ascesa, grandezza, splendore, declino, crollo, lenta risalita; ha conosciuto le battaglie civili di metà anni ’60, la crisi degli anni ’70, assediata da scioperi, rivolte, gangs, mafia e droga sino a farla immaginare in un futuro prossimo trasformata in un grande carcere a cielo aperto, ha visto germogliare quasi tutte le forme artistiche e di costume che conosciamo oggi (cool, fusion e free jazz, pop-art, street-art, disco, funky, punk, rap, hip-pop), ha finalmente conosciuto la lenta risalita da metà anni ’80 con la ripresa economica e la tolleranza zero per le strade, è stata teatro del più grande e spettacolare attacco terroristico della storia. Oggi, megalopoli di quasi 24 milioni di abitanti, l’immaginario collettivo l’ha cristallizzata in una sorta di vetrina per il cinema, la moda, i serial tv, l’arte controversa delle grandi case d’asta, i nuovi condomini per super ricchi, le riviste glamour e patinate, icona urbana del politically correct. Dopo tanta energia profusa e miliardi di neuroni bruciati in poco più di un secolo vive oggi come una sofisticata diva hollywodiana d’altri tempi, immersa in una sorta di crepuscolare stagione manierista, prigioniera del suo stesso mito e della sua stessa gravida storia.
Il viso pulito dell’America progressista e un po’ cerebrale con quegli occhiali d’osso incarnato dal giovane Bill Evans, quello sorridente e obeso da ghetto di città del nord di Julian Cannonball Adderley, la creatività che si fa strada a fatica dentro il cuore e la mente di un Miles Davis che passeggia assorto nello studio, lo studio stesso, sciatto e anonimo, nascosto nel ventre di un grattacielo. In questi scatti di Jakob Franz “Francis” Wolff, ebreo tedesco scappato negli States nel ’39, realizzati durante le registrazioni di Kind of Blue nella primavera del 1959, una sintesi meravigliosa di ciò che già era la Grande Mela sessant’anni fa. Fresca, stimolante, conflittuale, accogliente, caotica, contraddittoria, raffinata, sfrontata, elettrizzante. Per chi vi giungeva da fuori una giungla di sensuale cemento brulicante di dolci promesse. Tutto ciò che molte megalopoli d’oggi, più di mezzo secolo dopo, attendono ancora d’essere.