Lo spionaggio è una pratica antica quanto il mondo, tanto quanto si dice che lo sia la prostituzione, che ha alimentato nel tempo miti e leggende rimasti impressi nell’immaginario colletivo. Mitica è senz’altro la figura di Mata Hari, alias Margaretha Zelle. Potrebbe essere considerata a buon diritto la “madre di tutte le spie”. Come un fiume carsico, la sua storia riaffiora di tanto in tanto grazie soprattutto alla fiction che ne riprende, interpretandole, le tragiche vicende. L’ultima rievocazione in tal senso si deve a un recente opera di Paulo Coelho, pubblicata il 10 novembre scorso dalla casa editrice La nave di Teseo.
Dopo un breve prologo dedicato alla sua esecuzione, avvenuta a Vincennes il 15 ottobre 1917, il libro focalizza la biografia e la personalità della bellissima olandese dalla doppia vita che incantò le platee di mezza Europa nella stagione che precede il primo conflitto mondiale. Vengono così ricostruiti gli eventi che la condussero agli inizi del 1916 a divenire un agente dei Servizi segreti germanici per intercessione dal console tedesco all’Aja.
In quell’occasione ricevette un compenso di 22.000 franchi, il codice identificativo H21 e alcune boccette d’inchiostro simpatico per scrivere i messaggi. Secondo Paolo Bertinetti, professore di Letteratura inglese all’Università di Torino, che ha recensito il volume, Coelho sposa un approccio “innocentista” accreditando un ritratto accattivante della Zelle che indurrebbe il lettore a ritenerla non colpevole dell’accusa di spionaggio a favore dei tedeschi. Per questo le mette in bocca un’affermazione illuminante in tal senso: “Mi hanno condannata per spionaggio, mentre mi sono limitata a raccogliere soltanto i pettegolezzi dei salotti dell’alta società». In altre parole, il suo crimine sarebbe consistito soltanto nell’essere “una donna emancipata e indipendente in un mondo governato da uomini», capace di abbindolare e sedurre alti ufficiali millantando imprese più grandi lei. Una tesi, questa, a dir poco discutibile alla quale si possono soltanto contrapporre i fatti accertati.
Mata Hari giunge a Parigi dall’Olanda, suo Paese di origine, poi raggiunge la Spagna, per ritornare più tardi nella capitale francese nell’agosto del 1916. All’ombra della Torre Eiffel incontra il capitano Ladoux del Deuxième Bureau che la recluta nei servizi d’Oltralpe. Si materializza così lo spettro del doppiogioco che la giocherà a breve. Pochi mesi dopo viene arrestata e processata senza che l’avvocato difensore possa intervenire, se non nell’ultimissima fase del procedimento. Si arriva rapidamente alla condanna a morte. Nell’affrontare il tema cruciale del tradimento, Coelho si basa essenzialmente sulla posizione dell’avvocato Clunet che difese invano Mata Hari: si trattò di un processo arbitrario fondato su scarsi indizi di colpevolezza. La condanna serviva in quel difficile passaggio storico, nel quale l’esercito francese era in difficoltà sul campo di battaglia, per spostare l’attenzione su un presunto successo dell’intelligence in grado di smascherare ed eliminare le quinte colonne del nemico. Quattro giorni dopo l’esecuzione, lo stesso capitano Ladoux viene messo ai ferri e incarcerato con la medesima accusa di doppiogiochismo a favore dei tedeschi. Verrà poi rimesso in libertà nel 1919.
Margaretha Zelle colpevole o innocente, dunque? Il dubbio rimane, anche se nel 1947 il pubblico ministero André Mornet – ricorda lo scrittore brasiliano – dichiarò in un’intervista che «le prove erano talmente risibili che non sarebbero servite neppure per condannare un gatto». L’unica cosa certa a distanza di un secolo è che Mata Hari si conferma icona indelebile dell’intelligence in quanto dimensione insopprimibile della natura umana.