L’agricoltura biologica innestata all’interno delle aree urbane potrebbe essere la soluzione al problema dell’alimentazione per le generazioni future evitando, contemporaneamente, il peggioramento del riscaldamento globale. Questa sorta di “quadratura del cerchio” dell’ecosostenibilità ambientale convince l’architetto francese Vincent Callebaut, che ha ormai assunto il ruolo di apostolo delle così dette “fattorie verticali”, intese come aspetto strategicamente promettente del processo di creazione delle smart city a livello planetario. In altre parole, le città saranno veramente “intelligenti” quando raggiungeranno l’autosufficienza dal punto di vista energetico, con basse emissioni di Co2, grazie al consolidamento dell’economia circolare, dove tutto potrà essere riciclato all’infinito.
Di origine belga, Callebaut si è poi trasferito a Parigi dove, tra boulevard e brasserie, ha sviluppato la tesi visionaria sulla fusione fra agricoltura e struttura urbana. La spiega con parole semplici, ma non prive di suggestioni: “A 20 anni, eravamo già condannati ad aspettare la fine del mondo differenziando la spazzatura e spegnendo la spia luminosa della nostra televisione. Io, però, appartengo anche alla generazione 2.0, quella che interconnette i saperi. Tra le nuove tecnologie della comunicazione e le nuove tecnologie di rinverdimento delle città, possiamo creare progetti ibridi portando la campagna nelle città. Gli architetti della mia età vogliono tutti costruire edifici a energia positiva, scollegati dalle reti energetiche tradizionali, e perciò dai combustibili fossili. La mia professione di architetto mi ha permesso di fare proposte per uscire da questa logica di crisi imposta”. A chi gli obietta che sembrano discorsi usciti da un film di fantascienza, risponde: “Bisogna immaginare futuri possibili e avere progetti entusiasmanti. Il crocevia di vincoli in cui viviamo è in realtà favorevole al rinnovamento. Quindi io non ho esitato a lavorare su progetti-manifesto che possono sembrare utopici, ma che sono realizzabili tecnicamente ed economicamente. Un esempio per tutti: Dragonfly (Libellula), una fattoria verticale a New York lungo l’East River. Per questo prototipo di fattoria urbana gestita dai suoi stessi abitanti, abbiamo collaborato con il MIT, Massachusetts Institute of Technology, che era già ben avanzato sull’agricoltura verticale. Abbiamo anche creato un progetto di isole galleggianti per i rifugiati climatici, Lilypad”. Fantasmagorie avveniristiche di difficile realizzazione, le definirebbero gli scettici, ma l’architetto non demorde e, anzi, rincara, la dose: “Una città intelligente deve essere auto-alimentata e, a differenza di ciò che succedeva prima, i rifiuti devono diventare risorse. Potremmo, ad esempio, riciclare i rifiuti delle aziende agricole verticali in facciate fatte di acquari alimentati da bioreattori a base di alghe verdi, quelle che troviamo sulle spiagge di Normandia e Bretagna, che trasformano i rifiuti organici in biocarburante. Nella parte inferiore della torre, lagune di fitodepurazione garantirebbero il riciclaggio di tutte le acque reflue dell’edificio, in stagni decorati da pesci e piante. La pescicoltura permette sì di fornire pesce, ma anche di riciclare tutti i nutrienti contenuti nelle loro deiezioni come concime naturale per le piante dei giardini pensili. Si tratta di creare un’economia circolare in cui tutto si trasforma all’infinito. Dragonfly, non a caso, è la giustapposizione di una torre di uffici con una torre, giardino di abitazioni. Di notte, il calore, compreso quello dei data center, è reindirizzato verso gli alloggi. Spesso l’intelligenza della città risiede semplicemente nella sua riprogrammazione.