Il confronto e la dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione potrebbero non bastare a garantire la tenuta del tessuto democratico di un Paese. E’ indispensabile che ci sia, fuori dal Parlamento, quella “cittadinanza attiva” che una volta era tutelata e garantita dai grandi partiti. Conosciamo bene le cause della loro progressiva scomparsa: la politica si impoverisce e perde contatto con la società e la cultura. Quest’ultima, a sua volta, si ripiega su se stessa diventando perlopiù autoreferenziale. Il costo del sistema pubblico si ingigantisce e una corruzione diffusa gli viene in pronto soccorso. Tutto ciò mentre la globalizzazione pone le sue sfide ineludibili alle leadership democratiche, cogliendole impreparate. Questa situazione si verifica in tutti i Paesi europei e li trova nella condizione sociale e politica nella quale la storia li ha condotti. In Italia c’è stato il lodevole tentativo di salvaguardare le culture politiche alla base della Repubblica: è il caso dei Ds e della Margherita, la cui unione ha portato alla nascita del Partito Democratico. Uscito di scena con la caduta della Prima Repubblica, il “partito” è tornato, anche se solo a contorno del leader di turno. Il potere politico, sempre alla ricerca di un rapido consenso, rischia così di fermarsi – senza riflessione e senza memoria – al dato immediato offerto dal Web e dalle sue tecniche di comunicazione. Di conseguenza il leader si rivolge direttamente al Paese – saltando la mediazione tradizionale dei corpi intermedi – e interviene nel dibattito pubblico senza condizionamenti, dando volutamente all’opinione pubblica l’impressione di un “eterno presente”.
In questo scenario, una potenziale convergenza tra populismo e pragmatismo potrebbe mettere in seria difficoltà il sapiente meccanismo del gioco democratico. Da una parte il populismo a disposizione di un leader che sappia cavalcarlo e dall’altra il pragmatismo dell’uomo forte “mediatico” che cerca il sostegno populista per rafforzare la propria posizione. Contro questo pericolo, la democrazia deve dimostrare di sapersi difendere. Piuttosto che accettare (o non ostacolare) le pulsioni populiste provenienti dalla pancia del Paese, bisognerebbe fare ciò che si ritiene giusto, oggi come domani, per il bene comune. Contro la seduzione dell’appello plebiscitario (il partito della Nazione) il leader dovrebbe rifiutare l’aspetto invasivo del proprio partito e recuperare il suo ruolo di “parte”, in competizione con altre.
E’ il “partito” che deve tornare sulla scena politica, contro tutti i tentativi di addomesticarlo nel partito personale, destinato a dissolversi inevitabilmente con l’uscita di scena di chi ne è al comando. Devono tornare i partiti con la loro storia, vero collante tra gli iscritti rispetto alla dialettica interna. Devono tornare anche per ragioni riconducibili a distinte culture politiche presenti nel Paese, non per occasioni di opportunità del momento. Non a caso la nostra Costituzione (nella prima parte che fortunatamente nessuno vuole modificare) non dimentica i partiti. I padri costituenti infatti – è bene ricordarlo – nel disciplinare i rapporti politici, hanno disposto all’art. 49 che “i cittadini possono associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. Questo richiamo costituzionale è importante e prezioso nella situazione attuale, dominata da un “catch-all party” e da tanti movimenti e partiti satelliti che gli ruotano intorno in orbite più o meno distanti. Di fronte all’attuale livello culturale e morale di certi comportamenti pubblici (individuali e collettivi) è auspicabile un sussulto di onestà da parte del mondo politico. Un soprassalto di dignità che apra una nuova fase nella vita del nostro Paese.