Uno spettro si aggira per l’Europa, e non solo: la stagnazione secolare. Concetto che risale agli Anni Trenta, e più precisamente alla penna dell’economista Alvin Hansen. Cosa significa? Che le economie industriali soffrono di squilibri legati all’aumento della propensione al risparmio e alla diminuzione di quella a investire. Il che frena risparmio, crescita e inflazione schiacciando a terra i tassi d’interesse reali.
L’espressione è stata riattualizzata da Lawrence Summers, già segretario al Tesoro negli Stati Uniti. Felice Roberto Pizzuti l’ha usata nel «rapporto sullo Stato sociale 2017» – giunto alla XII edizione, edito da Sapienza Università Editrice e presentato ieri alla facoltà di economia a Roma – per descrivere le conseguenze della «seconda grande recessione» esplosa nel 2007-2008.
Il ritorno alla crescita, rivendicata dalle principali istituzionali economiche globali e dai governi, non sembra produrre significativi passi in avanti: peggioramento della distribuzione del reddito e instabilità dei proventi da lavoro e delle politiche di consolidamento fiscale. Ridotta dinamica della produttività, invecchiamento demografico e frammentazione territoriale dei sistemi produttivi. E ancora: aumento dei segnali di indebolimento della globalizzazione, maggiore difficoltà alla circolazione delle persone, minore propensione e disponibilità al coordinamento economico, sociale e politico internazionale, con una previsione ad un ritorno delle politiche protezionistiche.
Questo, dunque, il quadro che emerge dal Rapporto sullo Stato sociale 2017 curato dall’università La Sapienza e presentato a Roma nel corso di un evento al quale ha partecipato anche la presidente della Camera, Laura Boldrini.
Le questioni generali affrontate nel testo di quest’anno riguardano la natura della ‘grande recessione’ iniziata nel 2007. In particolare, iniziano a prendere forma le connessioni con l’ipotesi che sia in atto una “stagnazione secolare”. Sullo sfondo, la tendenza alla riduzione della dinamica della produttività e le proposte di decentramento contrattuale dei salari. Infine, i ruoli che possono essere affidati all’intervento pubblico e al Welfare State per superare la crisi.
Sono le politiche sociali dell’Unione Europea, secondo il rapporto, che continuano a riflettere l’inadeguatezza della complessiva visione economico-sociale che ha guidato la sua costruzione. Le politiche di bilancio restrittive e particolarmente vincolanti danneggiano le economie nazionali già deboli. La carenza di politiche industriali frena l’ammodernamento delle strutture produttive e la riduzione delle disomogeneità geografiche esistenti.
Il nostro Paese ha risentito particolarmente delle modalità controproducenti della costruzione europea e della ‘grande recessione’. Secondo il rapporto, infatti, i loro effetti si sono sovrapposti e mescolati con le cause di un proprio specifico declino operante da un quarto di secolo.
La soluzione, si sostiene nel rapporto, è «ampliare e ridefinire il ruolo del pubblico». Il recupero di una politica economica potrebbe sopperire agli squilibri del mercato, adottando un welfare mirato a una redistribuzione del reddito e una politica degli investimenti verso ricerca, innovazione e sviluppo. Obiettivi mancati dal piano Juncker e che restano sullo sfondo della vagheggiata riforma dell’Ue «a due velocità». Soluzioni di ben altro rilievo istituzionale, e costituzionale avrebbe bisogno un’Unione Europea.