Sarò un sorpassato sentimentalista ma mi piace pensare che ancora oggi, alle soglie del 2018, piena alba del III millennio, tra scoperte di esopianeti, vecchie credenze traballanti e nuove certezze (troppo) scintillanti, ancora esista e resista l’antica tradizione del presepe.
E’ un immagine calda, un affresco dolce e profumato, un rituale ancora semplice in questo mondo così complicato, che riporta a sensazioni di ancestrale serenità. Ricordo ancora la tenera meraviglia che da bambino mi investiva ammirando quello che realizzavano in una cappella laterale nella chiesetta del mio paese, una rappresentazione per nulla sontuosa ma ugualmente efficace, con quel fresco e soffice muschio di montagna imbiancato alla bell’è meglio col polistirolo, il gorgoglio del rigagnolo con la base in stagnola, la grotta in sughero ritorto, le statuine dalle fogge medievali e quel magico ed ingenuo fondale di cupolini e minareti che non c’entravano proprio nulla ma facevano tanto notte d’oriente e tutti erano soddisfatti così.
Quella del presepe è una tradizione diffusissima sin dal XIII secolo che si inserisce nel solco delle Bibliae pauperorum, ossia tutte quelle opere illustrate per spiegare i Sacri Testi agli analfabeti o anche descrivere minuscoli dettagli teologici per chi sapeva coglierli, tipico divertissement dei pittori medievali, che arricchivano i loro quadri ed affreschi di piccoli ed occulti particolari oscuri ai più.
E se si parla di tradizione non si può fare a meno di citare Giovanni di Pietro Bernardone, meglio noto come Francesco. Fra le tante notizie più o meno veritiere e agiografiche che circolano sul Santo Assisiate vi è quella secondo cui sia stato proprio lui a realizzare il primo presepe della storia, nel Natale del 1223 a Greccio, poco distante da Rieti. Si dice che quello che realizzò Francesco – ispirato dal grazioso borgo, che nel suo immaginario accostò a Betlemme – fosse privo di Gesù, della Madonna e di Giuseppe, solo una mangiatoia piena di paglia, un bue e un asinello, come se nessuno volesse osare tanto mettendo in scena la Sacra Famiglia. Fu una scelta di rispetto, certo, ma forse anche di prudenza dati i tempi torbidi di eresie, persecuzioni e roghi facili. Perché secondo alcuni storici quella di Francesco non fu una gran novità. L’iconografia classica del presepe pare si ricolleghi a riti pagani ancora più antichi che sopravvivevano fra i monti e le lande più sperdute d’Europa anche dopo più di mille anni dell’avvento del cristianesimo. Inoltre tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo la Chiesa si trovò a combattere non poche eresie, a volte organizzando vere e proprie crociate come quella contro gli Albigesi nel sud della Francia. Quelle giudicate più subdole e pericolose erano le deviazioni di matrice pauperista poiché riuscivano a coinvolgere con relativa semplicità intere fasce di popolazione indigente mettendole contro l’autorità ufficiale. E cosa c’era di più pauperista che mettere in scena per i più semplici la nuda e cruda povertà del Cristo appena giunto fra gli uomini?
Francesco, che certa tradizione ci dipinge come un idealista estremo, quasi folle, non fu poi così ingenuo se riuscì ad edificare un nuovo ordine monastico al limite dell’eresia in un momento storico assai delicato e pericoloso. Sua madre, Madonna Pica de Bourlemont, era una nobile di Tarascona, originaria dunque di quella Provenza covo di Catari e Albigesi sterminati solo pochi anni prima. Alcuni focolai sopravvivevano in clandestinità trovando rifugio persino in Toscana e in pieno Appennino, a due passi quindi dal cuore della cristianità. E proprio Francesco nacque in circostanze quantomeno bizzarre. Con il padre in viaggio per affari, la madre lo partorì al pianterreno della loro magione di Assisi – solitamente il livello destinato alle stalle e alle rimesse – dopo aver fatto allestire una specie di giaciglio di nuda paglia per provare la miseria e le sofferenze di Maria e del Bambino Gesù. Battezzò il neonato Giovanni e fu il padre Pietro, al ritorno, ad aggiungervi l’insolito nome di Francesco in onore della Francia e, si dice, per occultare eventuali indizi di giovannismo messi in giro dalla moglie. Insomma, alle origini del presepe, se si va a scavare, si trova uno scrigno di segni, segreti e travagli di natura per nulla mansueta, una storia strettamente legata a delicati equilibri politico-teologici, poi alla cultura ed anche al costume. In fondo il luogo che concatena tutto questo è proprio la celebre via di S. Gregorio Armeno a Napoli. Fu qui che dal ‘600 vennero canonizzate le fattezze dei personaggi del presepe come le conosciamo oggi e forse “non tutti sanno che” proprio dove sorge la chiesa del santo che dà il nome alla strada sorgeva l’antico tempio di Demetra-Cerere, dea della fertilità, alla quale i numerosi devoti dell’antica Neapolis solevano portare statuine votive in terracotta…
Chissà. Certo è che il seme sincretistico gettato a Greccio in una buia notte d’Appennino ha resistito a gelo, roghi, oblio e paura, germogliando, invigorendosi e fissandosi sempre più nei secoli in quell’immagine di letizia che anche oggi, nonostante tutto, è capace per pochi istanti di riportarci tutti alle dolcezze della nostra infanzia.