Le strutture a servizio di attività commerciali installate su suolo pubblico, comunemente denominate “dehors”, per poter rientrare nella dizione di “attività edilizia libera” di cui all’art. 6, comma 1, lett. e – bis), del d.P.R. n. 380 del 2001, devono rispondere a due requisiti: uno funzionale, consistente cioè nella finalizzazione alle esigenze dell’attività, che devono tuttavia essere “contingenti e temporanee”, intendendosi per tali quelle che, in senso obiettivo, assumono un carattere onotologicamente temporaneo, quanto alla loro durata, e contingente, quanto alla ragione che ne determina la realizzazione, palesato dalla loro permanenza massima sul suolo per un periodo non superiore a centottanta giorni (termine che deve comprendere anche i tempi di allestimento e smontaggio, riducendosi in tal modo l’uso effettivo ad un periodo inferiore); l’altro strutturale, consistente nella loro realizzazione con materiali e modalità tali da consentirne la rapida rimozione una volta venuta meno l’esigenza funzionale (e quindi al più tardi nel termine di centottanta giorni dal giorno di avvio dell’istallazione, coincidente con quello di comunicazione all’amministrazione competente). Dalla diversa angolazione della tutela del paesaggio, le installazioni in controversia sono esonerate dall’autorizzazione di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, ove si tratti di opere “di lieve entità”, nell’accezione declinata alla voce “A.16” dell’Allegato A al d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, adottato in attuazione dell’art. 12, comma 2, del d.l. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2014, n. 106, come modificato dall’art. 25, comma 2, del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, che intende per tali quelle (tra l’altro) destinate a permanere sul suolo per un periodo «comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare». (1) (2)
L’obbligo di motivare autonomamente il diniego del titolo paesaggistico in caso di mancato rispetto del termine previsto dalla legge per l’espressione del parere della Soprintendenza non può che riguardare il contenuto del giudizio, ovvero la ritenuta attitudine dell’intervento a incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere. Laddove invece a tale merito neppure si arrivi perché non è stata superata la barriera di ammissibilità della domanda del privato, l’atto di diniego assume contenuto vincolato e portata necessitata, e ben può limitarsi a riferire quanto chiarito dalla Soprintendenza, seppure tardivamente. (3)
(1) La sentenza in esame osserva che la difficoltà di inquadramento dei manufatti collocati su area pubblica per consentire l’ampliamento della superficie di somministrazione di alimenti e bevande delle attività commerciali è accentuata dalla stratificazione normativa, anche locale, connotata da scelte di pianificazione del territorio urbano particolarmente permissive, o vaghe, se non addirittura da atteggiamenti di sostanziale tolleranza o quanto meno acquiescenza rispetto a situazioni che, per consistenza e durata, paiono sussumibili al concetto di “nuova costruzione” più che a quello di attività edilizia libera di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001. Quanto detto anche alla luce del disallineamento delle previsioni temporali a presidio del regolare assetto del territorio, oggetto pure di tutela paesaggistica, stante che la irrilevanza di un intervento sotto il primo profilo non coincide, quanto ai requisiti temporali, con quella riferita all’altro (180 giorni, comprensivi di montaggio e smontaggio, previsti dall’art. 6, comma 1, lett. e – bis), costituenti il limite massimo ai fini della configurata irrilevanza edilizia, laddove per quella paesaggistica la voce “A.16” dell’allegato al d.p.r. 13 febbraio 2017, n. 31, contenente la semplificazione dei procedimenti di rilascio del relativo titolo di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, ne prevede solo 120). Né è di aiuto per addivenire ad una più precisa identificazione tipologica dei manufatti de quibus l’elencazione dichiaratamente non esaustiva degli interventi di edilizia libera contenuta nel “Glossario unico” approvato con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 2 marzo 2018, attuativo dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (che peraltro ancora prevede il tempo massimo di permanenza di 90 giorni) utile caso mai a confermare, attraverso un’attenta esegesi testuale delle singole denominazioni, comunque da ricondurre all’alveo definitorio della norma primaria, la riconducibilità dei dehors alla casistica di cui alla lett.e.bis) (che prevede una previa comunicazione) e non a quella di cui alla successiva lett. e.quinquies), riferita ad «elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici». La disciplina a regime non è infine incisa dalla riconosciuta possibilità di installare manufatti a servizio delle attività commerciali su area pubblica senza alcun titolo, né edilizio, né paesaggistico, introdotta in via eccezionale dall’art. 181 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l.17 luglio 2020, n. 77 (c.d. decreto “Sostegni”), e da ultimo prorogata al 30 giugno 2023 dall’ art. 1, comma 815, della l. 29 dicembre 2022, n. 197, legge di bilancio 2023 (con quanto ne consegue in termini di verifica della necessità di fruire dello spazio esterno, secondo l’incipit delle norme prorogate, «Ai soli fini di assicurare il rispetto delle misure di distanziamento connesse all’emergenza da COVID-19»). Essa peraltro non può retroagire rispetto a procedimenti incardinati sulla base della previgente normativa, dando adito (in questa non prevista ipotesi) ad una implicita, quanto inammissibile, sanatoria degli eventuali abusi commessi in ragione del mancato rispetto delle regole vigenti ratione temporis.
(2) Vedi sull’argomento, con riferimento alla qualificazione edilizia dell’intervento di installazione del dehors e della necessità di rispetto delle distanze di cui al d.m. 1444 del 1968: Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2023, n. 304.
(3) Nel disciplinare il rapporto tra Amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione (la Regione, ovvero, come nel caso di specie, su delega della stessa, i Comuni) e Soprintendenza, l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede espressamente che quest’ultima si esprima entro il termine di 45 giorni dalla ricezione degli atti, essendo altresì onerata dell’inoltro del preavviso di diniego ove intenda farlo in senso negativo (comma 8). «Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione». Il secondo periodo del comma 5 dell’art. 167, con riferimento ai residui casi di sanatoria ancora ammessi, prevede a sua volta che «L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni». Assimilando di fatto le due fattispecie, la giurisprudenza ha per lo più ritenuto (pure dopo che la l. n. 120 del 2020 ha inserito nell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 il comma 8-bis) che lo spirare del termine non esaurisca il potere della p.a. di pronunciarsi, ma ne dequoti il contenuto a mero “suggerimento”, sicché l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione può tenerne conto, ma non ne è vincolata, dovendosi determinare autonomamente sull’impatto dell’opera sul paesaggio (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; 29 marzo 2021, n. 2640 e 7 aprile 2022, n. 2584). Tale ricostruzione, tuttavia, che lambisce il noto dibattito sulla natura cogestoria o meno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in particolare avuto riguardo all’an e al quomodo dell’applicazione degli istituti di cui agli artt. 17-bis della medesima l. n. 241 del 1990, attiene al merito valutativo e non può essere estesa alle ipotesi in cui lo stesso non venga neanche attinto, essendosi l’Amministrazione competente omologata ad un’indicazione che avrebbe dovuto assumere ab origine autonomamente, in quanto riveniente direttamente dalla legge (v. Cons. Stato, sez. II, 18 luglio 2022, n. 6180). L’obbligo di motivare autonomamente il diniego del titolo paesaggistico, cioè, non può che riguardare il contenuto del giudizio, ovvero la ritenuta attitudine dell’intervento ad incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere. Quanto detto ricorre a maggior ragione tenuto che – rispetto alla previgente disciplina, contenuta nell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 – l’attuale persegue sicuramente una protezione più ampia, non riferibile ai soli singoli immobili dotati di particolare pregio o rilevanza estetica, approntando una strumentazione giuridica finalizzata alla salvaguardia del complesso di interessi che sono considerati manifestazione di valore identitario, di sedimentazione culturale, attrattività turistica e riferimento di un territorio, derivanti da interventi antropici e naturali, nonché dalla loro interazione.
Fonte: www-giustizia-amministrativa.it