Il sistema della pianificazione territoriale urbanistica successivo alla riforma costituzionale del 2001, caratterizzato dalle leggi regionali c.d. di “seconda generazione” si presenta in maniera ben diversa da quello riveniente dalla legge urbanistica del 1942. Esso risponde, cioè, ad una visione meno “gerarchica” e più armonica, che vede nella leale collaborazione, oltre che nella sussidiarietà, i teorici principi ispiratori delle scelte. La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale sia provinciale, si connota pertanto per una natura “mista” relativamente a contenuti -prescrittivi, di indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati. La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta un’articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti tra il profilo strutturale e quello operativo, e si connota per l’intersecarsi di disposizioni volte ad una programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo socio-economico dell’intero contesto.
I piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale costituiscono una peculiare e atipica declinazione di strumenti urbanistici sovracomunali, caratterizzati non da una generica esigenza di conferire alla pianificazione un respiro più ampio rispetto a quello della dimensione comunale, bensì anche da finalità di politica economica omogenea. Si tratta dunque di un modello di sovraordinazione connotato da una particolare incisività, rispondente a logiche di coordinamento settoriale, ma anche di sviluppo economico, tali da risolversi perfino nell’apposizione di vincoli espropriativi, ben più incisivi rispetto a quelli conformativi di regola rivenienti dal regime di edificabilità dei suoli. Per tale ragione, tale tipo di pianificazione, nata nel contesto ordinamentale antecedente la riforma costituzionale del 2001, è assimilata dal legislatore a quella territoriale di coordinamento di cui all’art. 5 della legge urbanistica fondamentale.
Lo strumento urbanistico sovracomunale, anche quando caratterizzato da particolare cogenza, come i Piani consortili di sviluppo industriale, non esautora i poteri comunali di governo del territorio; nel caso di specie piuttosto la loro vocazione settoriale li rende mirati ad uno specifico obiettivo, necessitante d’una regolazione dedicata e di tempi certi d’attuazione (Cons. Stato, sez. IV, 1 settembre 2016, n. 3781). Da qui la possibilità di sintesi procedurale attuata da alcune leggi regionali tra i vari livelli di pianificazione che risolva alla radice i problemi di coordinamento, facendo ricorso, ad esempio, al tipico momento di condivisione delle istanze procedimentali distinte costituito dalla conferenza dei servizi. L’affermata sovraordinazione tra due discipline, pertanto, non può risolversi nella sostanziale neutralizzazione dei contenuti degli atti comunali, stante che la illegittimità -non inefficacia- degli stessi ne presuppone comunque la caducazione solo a seguito di azione demolitoria.
Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione territoriale, con specifico riferimento ai Piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale, la cui efficacia è assimilata dal legislatore a quella degli strumenti territoriali di coordinamento di cui all’art. 5 della legge urbanistica fondamentale. La pianificazione sovracomunale, affermatasi sia sul livello regionale, sia provinciale, dopo la riforma costituzionale del 2001 si connota per una natura “mista” relativamente a contenuti -prescrittivi, di indirizzo e di direttiva- e ad efficacia, nonché per la flessibilità nei rapporti con gli strumenti sottordinati. La pianificazione comunale a sua volta non si esaurisce più nel solo tradizionale piano regolatore generale, ma presenta un’articolazione in atti o parti tendenzialmente distinti tra il profilo strutturale e quello operativo, e si caratterizza per l’intersecarsi di disposizioni volte ad una programmazione generale che abbia come obiettivo lo sviluppo socio-economico dell’intero contesto. L’atto rimesso alla competenza dell’Ente sovraordinato (tipicamente, la Provincia), in quanto rivolto ad un ambito territoriale più ampio, non può che essere destinato ad indirizzare per linee generali le scelte degli enti territoriali, nel pieno rispetto dell’allocazione delle stesse, secondo il richiamato principio di sussidiarietà, al livello di governo più vicino al contesto cui si riferisce, rispondendo all’obiettivo di valorizzare le peculiarità storiche, economiche e culturali locali e insieme assicurare il principio di adeguatezza ed efficacia dell’azione amministrativa. Nell’impostazione articolata e flessibile del sistema della pianificazione territoriale, cioè, tipicamente strutturata su vari livelli, esso si colloca “a monte”, quale inquadramento degli elementi strutturali, delle reti e delle strategie, dalle quali è evidente che il Comune non può prescindere (Cons. Stato, sez. II, 14 novembre 2019, n. 7839).
I piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale costituiscono una peculiare e atipica declinazione di strumenti urbanistici sovracomunali, caratterizzati non da una generica esigenza di conferire alla pianificazione un respiro più ampio rispetto a quello della dimensione comunale, bensì anche da finalità di politica economica omogenea. La relativa disciplina, già contenuta nell’art. 146 del T.U. delle leggi sul Mezzogiorno ( d.P.R. n. 1523 del 1967), successivamente negli artt. 51 e seguenti del d.P.R. n. 218 del 1978, demanda ai Consorzi dei comuni costituiti allo scopo il compito propositivo, che culmina nella predisposizione di «un progetto di piano» (o di variante) da sottoporre all’approvazione dell’autorità competente (le Regioni ex art. 65 del d.P.R. n. 616 del 1977), pur se per il tramite di una procedura di silenzio significativo. Si tratta dunque di un modello di sovraordinazione connotato da una particolare incisività, assimilato ope legis a quello dei Piani territoriali di coordinamento. Nel modello di pianificazione “a cascata” previsto dalla legge del 1942, il P.T.C. aveva infatti il compito fondamentale di definire l’assetto urbanistico d’area vasta, rendendo così disponibile per i comuni il quadro di riferimento necessario all’elaborazione dei propri piani. In quanto vincolante la successiva attività comunale di piano, quello territoriale di coordinamento doveva cioè fungere da parametro alla cui stregua valutare, all’epoca in sede di controllo ministeriale, la conformità del P.R.G. adottato alle scelte racchiuse nella pianificazione sovraordinata. La sua facoltatività formale, che ha fatto sì che lo strumento non abbia trovato pratica attuazione, era dunque smentita, nelle intenzioni del legislatore, dalla funzione che gli veniva assegnata, cioè quella di parametro indefettibile in base al quale valutare il piano regolatore generale adottato, presupposto logico, prima ancora che giuridico, dello stesso.
Tale cogenza non può considerarsi superata dal nuovo assetto delle competenze conseguito alla novella costituzionale. Essa va semplicemente “ricollocata”, senza peraltro perderne di vista la peculiarità, data anche dal fatto che trae legittimazione dall’avvenuta creazione di un organismo consortile ad obiettività mirata. I Comuni sono dunque tenuti ad adeguarsi alle disposizioni contenute nel piano regolatore del consorzio ASI, ma, qualora ciò non avvenga, va escluso ogni effetto automatico di conformazione dell’uso del territorio, potendo i consorzi stessi reagire unicamente con gli ordinari strumenti giurisdizionali avverso il loro inadempimento (Cassazione Civile, sezione I, 23 marzo 2001, n.4200; idem, sez. II, 13 novembre 1996, n. 9941). Pertanto, in assenza di recepimento delle prescrizioni dei piani regolatori dei consorzi ASI nell’ambito dei piani regolatori comunali successivamente adottati, dette prescrizioni non sono rilevanti come parametro di legittimità di atti amministrativi. La sorte dei suoli ricompresi nell’ambito di un piano regolatore ASI non recepito nel piano regolatore comunale, benché là destinati ad insediamenti, è quella di essere liberamente utilizzati dai privati proprietari in conformità alla destinazione impressa dal piano comunale, potendo i consorzi ASI reagire alle scelte (illegittime) del Comune unicamente con gli ordinari strumenti giurisdizionali avverso il loro inadempimento.
Fonte: giustizia-amministrativa.it