Chissà se alle prime luci di un’alba ancora avvolta dalla bruma notturna, la sagoma dell’isola di Manora vista dal mare possa ancora rievocare le gesta di Sindbad il marinaio. E chissà se i venti che soffiano dalla Valle dell’Indo sul far della sera riescano a portare anche fioche le voci dei soldati di Alessandro o i nitriti dei loro cavalli mentre attraversano l’ultimo ostacolo fisico che li separa da un mondo nuovo ed oscuro… Di limes ce ne sono e ce ne son stati tanti nella storia, dal Vallo di Adriano alla foresta di Teutoburgo, dal Bosforo alla stessa Muraglia Cinese, dall’immenso fronte del Sahara alla piccola catena dei Pirenei. Ma qui dove si incontrano il sinuoso Indo e le vaste steppe persiane, le vette del Punjab e il Mare Arabico, il multiforme politeismo induista e il granitico monoteismo del Profeta probabilmente ci troviamo davvero sul più vasto e duraturo limes geografico, storico e culturale del globo e Karachi – polvere, sale, caos e immensità – ne rappresenta il ganglio recettore di tutti i suoi stimoli nervosi.
Al largo di quella che un tempo era un’isola di forma allungata e oggi è una penisola che protegge l’ingresso alla baia è passato nel 325 a.C. il cretese Nearco, ammiraglio della flotta di quell’Alessandro Magno che intendeva in quegli anni estendere i suoi domini oltre l’Indo poco distante; da queste parti il Medioevo europeo collocava le Porte del Re Macedone e il Regno del Prete Gianni che tenevano fuori dal mondo civile orde di barbari mostruosi; sulle onde del Mare Arabico è scivolato Marco Polo di ritorno dalla Cina; le pianure a nord di Karachi vennero percorse dai monaci Sufi che portarono qui la loro versione della Parola di Maometto e su queste stesse pianure si poteva udire l’eco dei cavalli mongoli che terrorizzavano le steppe asiatiche. Possono sembrare inutili digressioni queste, raccontano invece molto dei tratti complessi e delle cicatrici dell’attuale metropoli, porta sull’Oceano di un pezzo significativo del sud Asia e città più grande del mondo islamico al confine con l’India.
Quando arrivarono i Sufi non c’era ancora la Karachi che conosciamo noi ma un villaggio di pescatori che rimase tale sino al XVIII secolo, quando un gruppo di mercanti vi si trasferì, attratto dalla spettacolare baia, protezione naturale per un futuro interessante porto, con tutto quel viavai di bianchi europei sempre più numerosi in quello che un tempo era un lago esclusivo del mondo arabo. Il villaggio venne ribattezzato Kolachi-jo-Goth in onore di un eroe locale che aveva liberato quelle lande da un pericoloso coccodrillo (la metropoli sorge al limitare del gigantesco delta del fiume Indo) mentre il nome Karachee compare scritto per la prima volta in un rapporto olandese riguardante un naufragio avvenuto nei pressi della cittadina; presumibilmente la dizione britannica Karachi deriva da questi passaggi successivi. Dopo i lavori di miglioria al porto, nel 1795 venne eretto un forte sulla punta sud di Manora, segno che le attività commerciali si facevano sempre più interessanti ed appetibili in anni in cui l’influsso sull’area della Compagnia delle Indie Britanniche cresceva sempre di più; gli inglesi rappresentavano di fatto i veri playmaker dell’Oceano Indiano bypassando il ruolo ormai meramente rappresentativo dei vari regni e potentati locali.
Nel 1839 i britannici dovettero solo comparire con le loro navi da guerra al largo del Forte di Manora perché l’intera città si arrendesse e consegnasse ad essi, cosa che probabilmente i mercanti che la gestivano non vedevano l’ora avvenisse. La città – in realtà un paesone – contava circa 10.000 abitanti, ancora molto provinciale se si pensa che Bombay, 850 km più a sud, ne faceva già oltre 250.000. Ma, come avvenuto per la gemella indiana 150 anni prima, per gli inglesi entrare a Karachi significava prendere il controllo di una porta d’accesso al cuore dell’Asia centrale. Con una padronanza della geopolitica nettamente superiore alle altre potenze dell’epoca gli inglesi compresero per primi le potenzialità strategiche di questa ancora anonima cittadina di pescatori. Era da qui infatti che si poteva risalire la Valle dell’Indo dall’Oceano sino alle prime grandi vette dell’Himalaya, era da qui che, una volta sbarcati, si poteva raggiungere il Mar Caspio attraverso le vaste pianure della Persia e piantare un cuneo ai fianchi dell’Impero Zarista. Nel 1843 fu introdotto un servizio di battelli a vapore per 500 miglia lungo l’Indo, il porto e le sue strutture furono ingrandite e migliorate, nel 1861 fu costruita una ferrovia di circa 130 km sulla riva destra sempre dell’Indo, nel 1864 furono stabilite comunicazioni telegrafiche dirette con Londra.
Gli abitanti salgono a 57.000 nel 1857, quintuplicati dopo soli 18 anni dall’inizio del dominio inglese, segno di grande dinamismo e prima prosperità. E’ da qui che gli inglesi organizzano la spedizione per conquistare l’Afghanistan a metà secolo, appena si accorgono che i russi si stanno avvicinando troppo alle vette himalayane. Intanto accanto alla storica classe dei mercanti viene formandosi anche un primo nucleo di notabili fra avvocati, professori e amministratori in cui cominciano a germogliare prime dialettiche e istanze culturali e politiche. Non è un caso che nel 1876 nasce qui Mohammed Alì Jinnah, il padre del moderno e autonomo Pakistan, sorta di Ataturk mancato per questo grande Stato islamico. L’apertura del Canale di Suez nel 1869, fornisce un nuovo e decisivo impulso alle ambizioni di Karachi che crebbe sino a divenire entro fine secolo il secondo scalo marittimo dell’Impero Anglo Indiano. L’ulteriore sviluppo della rete ferroviaria del Sindh, la regione di Karachi confinante con l’India, fungerà da volano all’incremento della produzione agricola nel Punjab che divenne così il granaio del subcontinente indiano.
Nel 1900 la città conta circa 140.000 abitanti e alla vigilia della Prima Guerra Mondiale diventa il più grande porto esportatore di grano dell’Impero. Dopo la prima guerra mondiale tocca al settore manifatturiero e dei servizi espandersi e nel 1924 venne costruito il primo aeroporto che divenne il principale scalo di ingresso in India. Sostanzialmente Karachi nacque e si sviluppò con l’imprinting indo-britannico più che quello islamico. Fu con la creazione del Pakistan nel 1947 che, oltre a diventare capitale e principale centro logistico, industriale, commerciale e amministrativo del nuovo Paese, virò verso una maggiore islamizzazione accogliendo al proprio interno centinaia di migliaia di profughi di religione musulmana cacciati dall’India e al contempo espellendo non poche persone di etnia indiana. A causa degli attriti – se non del quasi conflitto aperto – tra i due nuovi Stati nati dalla dissoluzione dell’Impero Angloindiano Karachi modificò in maniera davvero radicale la composizione etnicoreligiosa della propria popolazione.
E’ probabile che sia anche a causa di questo che naufragarono le intenzioni iniziali di Jinnah di creare uno Stato sì a prevalenza islamica ma di natura laica come la Turchia di Ataturk ma questa è un’altra storia. Nel 1969 la capitale si trasferì a Islamabad ma Karachi mantenne la sua preminenza come centro commerciale, direzionale e industriale del Paese senza alcuna altra realtà urbana a farle da contraltare. Negli anni ’60 un certo diffuso benessere e l’emergere di una classe imprenditoriale di respiro internazionale – soprattutto sullo sfondo di un Paese ancora tutto da costruire – le valse l’appellativo di “City of light”. Lo sviluppo vertiginoso – e incontrollabile – è testimoniato dall’aumento esponenziale della popolazione: dai 500.000 abitanti al momento della proclamazione dell’Indipendenza del Pakistan (1947) al milione di abitanti nel 1951, 2 milioni nel ‘61, 3,5 milioni nel ’72, 5,3 milioni nel ’81, 9,5 milioni nel ’98 sino ai 23 milioni dell’attuale megalopoli inclusa l’area metropolitana.
L’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici nel 1979 confermò ancora di più la storica posizione nevralgica di Karachi, cerniera tra Medioriente, centro Asia e subcontinente indiano. La città divenne hub strategico per la controffensiva occidentale e vi transitarono quantità inimmaginabili di soldi, combattenti stranieri, armi di ogni tipo e droga dallo stesso Afghanistan, una manna per la criminalità locale. In quei decenni Karachi conquistò il non invidiabile primato di centro più pericoloso del mondo e non aiutò lo scoppio della guerra al terrorismo dell’inizio del XXI secolo che ha portato più volte l’intero Paese sull’orlo della guerra civile. Oggi la situazione è decisamente migliorata e la violenza per le strade degli anni ’90 e ’10 fortunatamente pare un ricordo. Rimangono sul tavolo i giganteschi problemi legati alla gestione di questa immensa realtà all’interno di un Paese con già non pochi intrinsechi punti di debolezza e spesso lacerato da tensioni religiose. Il continuo afflusso di immigrati in cerca di lavoro provenienti dalle aree rurali sin dagli anni ’50 ha tenuto perennemente sotto scacco le già scarse infrastrutture cittadine. Moltissimi e sin da subito i nuovi arrivati furono costretti ad abitare in baraccopoli di fortuna, senz’acqua, fognature ed elettricità.
La fornitura dei servizi di base è rimasta un problema anche per la Karachi del 21° secolo che, nonostante numeri importanti in campo economico, se si escludono quelle africane rimane probabilmente la megalopoli con più disparità, insicurezza e precarietà del mondo. Secondo stime ufficiali gli insediamenti informali in città superano le 5.000 unità, dai piccoli isolati ai veri e propri quartieri da centinaia di migliaia di abitanti come Moosa Colony o Orangi Town. Si calcola che il 60% dei 23 milioni di abitanti di Karachi vivano situazioni critiche di approvvigionamento idrico, assenza o quasi di fognature, scarso accesso all’energia elettrica o direttamente arrangiati in slum. Le periodiche piogge monsoniche ingrossano torrenti e canali che esondano da alvei ridotti a discariche, di conseguenza le strade di molti quartieri si riempiono di tonnellate di rifiuti e carcasse di animali in una melma maleodorante con la quale bisogna convivere per giorni e giorni.
In molte zone della città è la criminalità (water mafia) a controllare e distribuire l’acqua per mezzo di autobotti e la sera anche normalissimi impiegati possono trovarsi in fila con bidoni e secchi per rifornire la propria famiglia del prezioso e indispensabile liquido. Mentre ogni giorno la metropoli sversa nella baia circa 400 milioni di galloni di reflui non trattati (circa 1,6 miliardi di litri) e solo il 4% dell’area urbanizzata può usufruire di spazi verdi adeguati. A tutto questo si aggiunga che la capitale economica del Pakistan e città di riferimento per un pezzo d’Asia centrale ancora oggi non possiede una metropolitana, giusto un sistema di trasporto pubblico veloce su corsie preferenziali. Eppure la “Città delle luci”, che ha pagato più volte e continua a pagare il suo essere la “megalopoli cerniera” fra mondi lontanissimi, continua ad andare avanti, a trainare un Paese intero, ad accogliere disperati che cercano di dare un senso alla parola futuro, a sorprendere gli analisti economici internazionali. Forse oggi sarebbe più giusto chiamarla “Città dei coraggiosi”, in fondo prende nome dall’uccisione di un enorme coccodrillo, in fondo Moenjo Daro è a soli 40 km da qui, in fondo l’intrepido e avventuroso Sindbad il marinaio delle “Mille e una notte” prese il nome proprio dal Sindh, la regione di Karachi.