Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato una normativa regionale in materia di taglio colturale secondo cui i tagli colturali, comprese le opere connesse per la cui esecuzione non sia necessario il rilascio di autorizzazione o concessione edilizia, costituiscono interventi inerenti esercizio di attività agro-silvo-pastorale e per essi non è richiesta, ai sensi dell’articolo 149 del D.Lgs. n. 42/2004, l’autorizzazione di cui all’articolo 146 del citato decreto legislativo. Il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 9 e 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e a diverse norme legislative statali. La Corte nel ritenere, da una parte, inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e dichiara l’illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata con le seguenti argomentazioni.
L’intervento di taglio colturale è regolato, come visto, dall’art. 149, comma 1, lettera c), cod. beni culturali, che limita l’esonero dall’autorizzazione paesaggistica al caso in cui il taglio sia autorizzato «in base alla normativa in materia» e sia eseguito in un bosco vincolato ex lege. La giurisprudenza amministrativa conferma che l’assoggettamento del taglio colturale alla specifica disciplina di cui al citato art. 149, comma 1, lettera c), esclude che tale particolare tipo di intervento possa ricadere anche fra quelli genericamente inerenti all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, esonerati dall’autorizzazione paesaggistica ai sensi della lettera b) dello stesso art. 149, comma 1 (Consiglio di Stato, sezione prima, parere n. 1233 del 2020; sezione terza, sentenza 13 febbraio 2020, n. 1124; sezione sesta, sentenza 20 luglio 2018, n. 4416; sezione sesta, sentenza 10 febbraio 2015, n. 717; Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, sezione prima, sentenza 22 aprile 2014, n. 160).
L’art. 3, comma 2, lettera c), t.u. foreste fa rientrare nelle «pratiche selvicolturali» «i tagli, le cure e gli interventi volti all’impianto, alla coltivazione, alla prevenzione di incendi, al trattamento e all’utilizzazione dei boschi e alla produzione di quanto previsto alla lettera d» (che definisce i «prodotti forestali spontanei non legnosi»). Il taglio colturale rappresenta, dunque, un’«ordinaria attività di gestione e manutenzione del bosco», distinta dalla «trasformazione del bosco» (sentenza n. 201 del 2018). Le attività di gestione forestale e la trasformazione del bosco sono disciplinate, rispettivamente, dagli artt. 7 e 8 t.u. foreste. In base all’art. 7, comma 13, «[l]e pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all’articolo 3, comma 2, lettera c), eseguiti in conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali di cui all’articolo 149, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42».
Proprio con riferimento all’autorizzazione paesaggistica di cui si discute, la Corte ha già statuito che «la Regione non sarebbe competente, in una materia di esclusiva spettanza dello Stato, ad irrigidire nelle forme della legge casi di deroga al regime autorizzatorio, neppure quando essi fossero già desumibili dall’applicazione in concreto della disciplina statale» (sentenza n. 139 del 2013, confermata dalla sentenza n. 144 del 2021). Non vi è dubbio che la disciplina del provvedimento autorizzatorio, così come l’individuazione delle ipotesi di deroga, attiene al cuore della materia della tutela del paesaggio, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (ex multis, sentenze n. 108, n. 106 e n. 21 del 2022, n. 141 e n. 138 del 2021).
Fonte: Corte Costituzionale