Non è infrequente assistere a diverbi fra operatori delle forze dell’ordine e cittadini, spesso automobilisti fermati dalla polizia locale durante i controlli sulle strade. A seguito degli insulti e delle minacce proferite da quest’ultimi nei confronti degli agenti, generalmente si configura il reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Ma è sempre così? Quali i contorni e i limiti di questa fattispecie delittuosa?
Alcuni chiarimenti, da taluni ritenuti discutibili, li ha forniti recentemente la Corte di cassazione con la sentenza n. 13688, stabilendo che, per accertare la ricorrenza della tipologia di reato in questione, occorra la prova della presenza di più persone a conferma dell’offesa subita dagli operatori di polizia. Tale posizione dei giudici della Suprema corte è maturata sulla base della valutazione di un caso di specie esemplare: un cittadino era stato fermato nella città di Messina dai carabinieri che gli avevano contestato alcune violazioni delle norme del Codice della strada. Dopo la comunicazione da parte degli agenti del sequestro del motorino come conseguenza alle violazioni stesse, sarebbe stata contestata come reato la seguente frase detta dall’imputato: “Mio padre è della Guardia di Finanza, voi non mi potete sequestrare … Ora lo faccio venire e vi faccio vedere io”.
Gli inquirenti hanno ritenuto si trattasse di reato di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Tuttavia, secondo i giudici della Cassazione, in questo caso non si sarebbero verificati i presupposti per qualificare questa condotta come reato. Da un lato, infatti, risultava palese la carica intimidatrice della frase pronunciata dall’imputato all’indirizzo dei due carabinieri che, nel doveroso esercizio dei compiti d’istituto, gli avevano contestato la violazione di norme del Codice della Strada. Infrazione che comportava il sequestro del motorino su cui viaggiava senza casco. Dall’altro, tuttavia, è pur sempre necessaria la presenza di almeno due persone, oltre agli agenti coinvolti, per confermare l’episodio, come chiaramente indica l’art. 341 bis del Codice penale, di cui riportiamo il testo: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile. Ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa, sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”. Pertanto, i giudici hanno ritenuto che la pena potesse essere rideterminata decurtando dalla pena finale di mesi cinque di reclusione, quella inflitta per il reato di oltraggio, pari a un mese.