Il Comune di CURNO ha impugnato dinanzi alla Cassazione la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia per violazione dell’art. 3, c. 1, del decr. legisl. n. 504/1992, in relazione al silenzio rifiuto opposto dal Comune stesso circa l’istanza di rimborso ICI versata dal contribuente dal 2006 al 2009 per alcuni manufatti gravati da servitù di uso pubblico, con ricorso del contribuente dichiarato inammissibile dalla CTP di Bergamo ed appello accolto dalla CTR.
In via preiiminare, la Corte, con la sentenza n. 24264/2019, ha ritenuto inammissibile l’eccezione di giudicato sollevata dalla contribuente in relazione ad una decisione della stessa Corte che aveva respinto il ricorso del Comune riguardante lo stesso complesso immobiliare di cui al giudizio in questione. Il Supremo Collegio ha affermato, infatti, che, affinchè il giudicato sostanziale formatosi in un giudizio operi in altro giudizio instaurato successivamente, è necessario che tra la precedente causa e quella in corso vi sia, oltre che identità di parti e di PETITUM, anche di CAUSA PETENDI, per la cui individuazione rilevano non tanto le ragioni giuridiche enunciate dalla parte, bensì l’insieme delle circostanze di fatto che la parte stessa pone a base della propria richiesta, essendo compito del giudice la corretta identificazione degli effetti giuridici scaturenti dai fatti dedotti in causa (come da sentenza conforme n. 16688/2018 della stessa Corte). Nella specie, invece, ad avviso della Corte, non è dato comprendere le dette circostanze di fatto, né in quali atti avrebbe potuto il Collegio per rinvenire le informazioni necessarie.
In ordine al merito della controversia, la Suprema Corte ha osservato che nel caso di specie viene in rilievo una c.d. SERVITU’ DI USO PUBBLICO, nella cui accezione si intende in primo luogo una caratteristica strutturale di alcuni beni, essenzialmente demaniali, di proprietà pubblica, che sono aperti al godimento collettivo. La seconda accezione descrive il contenuto di determinati diritti imputati ad una comunità di abitanti, vale a dire ad un gruppo di persone legate fra loro da un vincolo che ha ad oggetto beni immobili appartenenti a soggetti, sia pubblici che privati, terzi rispetto alla medesima collettività. Ad assumere rilevanza nella presente causa, è, la seconda accezione ed i diritti collettivi consistono nel godimento di determinate utilitates, limitate all’UTI , e non estese al FRUI , riconducibili a detti beni.
Il giudice di appello, sempre secondo il Collegio, ha erroneamente ricondotto la servitù di uso pubblico all’art. 825 del c.c. che sottopone alla disciplina dei beni demaniali i diritti reali spettanti ai Comuni sui beni appartenenti ad altri soggetti quando sono costituiti per il perseguimento di fini di pubblico interesse e afferma che, trattandosi di diritti soggetti alla disciplina propria dei beni demaniali il loro titolare “non può che essere il Comune”.
In definitiva, la servitù di uso pubblico appartiene alla collettività e la proprietà del terreno resta sempre, nella specie, al privato. Costui, lungi dal divenire un nudo proprietario, mantiene tutti i poteri propri di un dominus, per cui l’ici è da lui dovuta non potendo applicarsi l’art. 4 del citato decr. legisl, n. 504/1992.
Pertanto, il ricorso del Comune merita accoglimento e la sentenza impugnata è stata cassata.
LINK – CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. V CIVILE – SENTENZA N. 24264 DEL 30 SETTEMBRE 2019
Articolo realizzato in collaborazione con la redazione della rivista Finanza Territoriale
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