E’ illegittimo il diniego di riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), l. n. 92 del 1991 – opposto in via automatica – in ragione di una condanna a pena pecuniaria irrogata per un risalente episodio di guida in stato di alterazione dovuta all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi dell’art. 187, comma 1, d.lgs. n. 285 del 1992, rispetto alla quale è intervenuta una pronuncia di riabilitazione non valutata.
Ha chiarito la Sezione che la pubblica amministrazione non può, nel denegare il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione richiesto ai sensi dell’art. 9, l. n. 92 del 1991, fondare il proprio giudizio di mancato inserimento sociale dello straniero sull’astratta tipologia del reato – la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope – e sulla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto e, benché la sua valutazione sia finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato, non per questo essa può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto.
La riabilitazione del resto, come la Sezione ha ricordato (v. Cons. St., sez. III, 30 luglio 2018, n. 4686), comporta l’accertamento del «completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato» (Cass.pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089).
Se si prescinde dalle ipotesi di reato ostative al riconoscimento della cittadinanza, contemplate dall’art. 6, l. n. 92 del 1991, non è possibile però esigere dallo straniero, per riconoscergli la cittadinanza, un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico, sicché il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero richiedente la cittadinanza italiana, sebbene debba tenere conto di fatti penalmente rilevanti, non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia.
La Sezione ha concluso nel senso che il Ministero dell’Interno deve rivalutare se il comportamento dello straniero, per le concrete modalità del fatto contravvenzionale in ordine al quale è intervenuta riabilitazione, sia concretamente indice di un mancato inserimento sociale e, quindi, di una mancata integrazione nella comunità nazionale o se, al contrario, simile comportamento, tenuto conto, nel complesso, della sua condotta di vita, della sua permanenza sul territorio nazionale, dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, e di tutti gli elementi ritenuti rilevanti a tal fine, non denoti una mancata adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, a cominciare dal principio personalistico e da quello solidaristico, compendiati nel valore, posto «al vertice dell’ordinamento», della dignità umana (v., sul punto, Corte cost. 7 dicembre 2017, n. 258, proprio in materia di giuramento reso dallo straniero disabile per ottenere la cittadinanza). Solo se infatti lo straniero riconosce questi fondamentali valori dell’ordinamento come propri, l’ordinamento, correlativamente, può riconoscerlo come cittadino, secondo un rapporto di mutuo riconoscimento.
Ma, ove ciò lo straniero faccia, proprio quel valore della persona umana richiamato dalla Corte costituzionale, nello straniero richiedente la cittadinanza e avente tutti i requisiti per ottenerla, non può essere avvilito solo per una malintesa, e comunque immotivata, concezione etica dello Stato, che fonda un surrettizio automatismo preclusivo in presenza di qualsivoglia condanna, anche ove per essa sia intervenuta da anni addirittura la riabilitazione.