Sono 251 i metri di corridoio che attraversano il MIT (Massachusetts Institute of Technology), uno dei centri tecnologici più importanti al mondo, gigantesco incubatore d’ingegno e agognata meta per cervelli in fuga che sforna innovazioni a ciclo continuo. Ecco perché Robert Armstrong, direttore della Mit Energy Initiative (Mitei), parla di “energia umana” come dote fondamentale del matrimonio fra accademia e industria celebrato qui a Cambridge. Il Mitei è un centro di ricerca nato nove anni fa dalla collaborazione fra Mit e varie aziende del settore energetico. Eni è uno dei membri fondatori. Questo è il punto di raccolta di tutte le idee e i progetti di ricerca dell’ateneo che ruotano attorno all’energia, un’impresa trasversale che coinvolge circa trecento professori (un terzo del corpo docenti) e migliaia di studenti, provenienti da tutte e cinque le scuole dell’ateneo, gli ingegneri lavorano fianco a fianco con i fisici, i geologi, ma anche con gli esperti di policy e gli urbanisti, perché “l’energia permea tutti i settori, e avere un approccio interdisciplinare è inevitabile”, dice Armstrong.
Il club studentesco dedicato all’energia conta circa cinquemila membri, la metà degli iscritti al Mit. Difficile mettere insieme un team accademico più preparato e all’avanguardia nel settore. Non è un caso se il precedente direttore del Mitei, Ernest Moniz, è stato scelto da Barack Obama come segretario dell’energia. Quando è nato il Mitei, l’università ha cercato la collaborazione con i privati “perché hanno una visione più a lungo termine rispetto ai Governi, e hanno una conoscenza diretta dei problemi e delle strade da esplorare. Tre i pilastri fondamentali di questa iniziativa: “Primo, affrontare il problema delle riserve energetiche. Sembra incredibile oggi, ma quando abbiamo iniziato la preoccupazione più diffusa nel mondo era il ‘peak oil’. Ora il problema è piuttosto la crescita della domanda: nella prima metà di questo secolo prevediamo un raddoppio della domanda di energia, soprattutto dai paesi in via di sviluppo”. Il secondo aspetto, spiega, è la sicurezza, mentre il terzo è l’ambiente: “Come facciamo a soddisfare la domanda crescente di energia rispettando l’ambiente? Questa è la domanda più pressante oggi”. A titolo di esempio, il Mitei ha organizzato il primo Solar Day del campus, una giornata di simposi e incontri interdisciplinari per condividere e lanciare idee sul solare, “settore in cui Eni sta lavorando molto, dimostrando un approccio lungimirante e diversificato. Se non affrontiamo il problema energetico non riusciremo ad affrontare le grandi sfide globali, dalla distribuzione del cibo ai cambiamenti climatici”. Sulla capacità di rispondere alle sfide globali Robert Stoner, vicedirettore Scienza e tecnologia del dipartimento e direttore del Tata Center, si è chiarito le idee lavorando per la fondazione Clinton su progetti di sviluppo in Malawi, Tanzania e Rwanda. In Africa ha visto in prima persona che la questione energetica è il nodo dello sviluppo, ma i soggetti che lo mettono in pratica sono spesso inadeguati: “Organizzazioni multilaterali come la Banca mondiale e l’Onu, ma anche piccole Ong che lavorano a livello bilaterale, hanno una conoscenza tecnica molto limitata dei problemi, poca creatività e tempi di realizzazione incompatibili con le esigenze di questi paesi – spiega Stoner e aggiunge -quando sono tornato dall’Africa ho iniziato a lavorare qui. Abbiamo fatto partnership con istituzioni africane, abbiamo lavorato con università cinesi per ridurre le emissioni dei loro sistemi di produzione, abbiamo lavorato sulla policy delle province della Cina, ma a parte questo non avevamo altri contatti particolari con l’Asia, fino a quando non ho incontrato Ratan Tata, personaggio affascinante che ci ha dato la possibilità di concentrarsi sull’India. Abbiamo creato un programma di scambio per professori e studenti del Mit, che si occupano non soltanto di ricercare soluzioni energetiche ma anche di implementarle”. Stoner pone l’accento sulla capacità di produrre innovazioni rivoluzionarie, disruptive, invece di accomodarsi su miglioramenti incrementali delle tecnologie esistenti: “Non dico che sia un’esclusiva del Mit, ma qui certamente c’è uno sproporzionato numero di professori e studenti che si occupa di questo tipo di ricerche ad alto rischio, e la ragione è la nostra consolidata collaborazione con il settore privato”.
Grazie alla consolidata collaborazione con il settore privato, Mitei mette l’accento sulla capacità di produrre innovazioni rivoluzionarie, disruptive, invece di accomodarsi su miglioramenti incrementali delle tecnologie esistenti. Vladimir Bulovic, codirettore del Solar Frontier Center, il centro che esplora gli spazi sconfinati dell’energia solare, lavora per produrre celle solari sempre più leggere ed efficienti, in modo che si possano trasportare più agevolmente ai quattro angoli del mondo, anche dove non ci sono infrastrutture: “La gente sottovaluta il fattore del peso della tecnologia solare, ma è fondamentale, specialmente quando si parla di paesi in via di sviluppo. Molto probabilmente un pannello solare verrà trasportato a braccia da una persona”. Dai laboratori del Mit, in collaborazione con Eni, sono uscite celle solari stampate su fogli di plastica sottilissimi. Il professore mi mostra un modulo con celle spesse circa due micron, un cinquantesimo della sezione di un capello. “Può essere una soluzione per applicare le celle solari a qualunque cosa, alle tende, ai vestiti, agli occhiali”, e tira fuori un paio di occhiali da sole che alimentano un orologio da tavolo con la poca luce che filtra nell’ufficio in una giornata tipicamente bostoniana. Il design dell’occhiale è da rivedere, ma l’idea è rivoluzionaria: “Stiamo cercando di cambiare il concetto stesso di energia solare”, risorsa che ha costi d’installazione particolarmente elevati quando si parla d’impianti tradizionali. Ma Bulovic mostra anche fogli di carta con celle integrate, pannelli perfettamente trasparenti che potrebbero essere applicati sullo schermo di qualunque smartphone per produrre energia e altri prodigi della nanotecnologia. C’è il problema dell’intermittenza della fonte solare, certo, ma praticamente le batterie al litio le hanno inventate in questi corridoi.
Analoghe innovazioni si stanno progettando in campo petrolifero. Ruben Juanes, professore del dipartimento d’ingegneria civile e ambientale, studia i flussi di liquidi nei mezzi porosi, come rocce o strati sabbiosi, l’ambiente naturale dell’estrazione di idrocarburi. Nel suo laboratorio si ricercano, fra le altre cose, metodi più efficaci per far fluire il petrolio nei processi di estrazione tradizionali e con tecniche di fratturazione idraulica. “In media nei giacimenti petroliferi a livello globale la quantità di petrolio che si riesce a estrarre è pari al 30%. Grazie ai modelli tridimensionali sappiamo che nel sottosuolo ce n’è molto di più, ma il 70% rimane intrappolato lì. E’ chiaro dunque che anche un incremento marginale delle nostre capacità di recuperare petrolio dai pozzi ha un impatto enorme sull’estrazione”, spiega il professore. Là sotto ci sono tesori di proporzioni immense che grazie alla tecnologia sono individuati e accuratamente mappati, ma rimangono inaccessibili. Juanes e il suo team lavorano per far scorrere l’intero bottino in superficie, e ogni barile in più che viene recuperato, magari lavorando sulla viscosità dei liquidi per l’estrazione, diminuisce la necessità di andare alla ricerca di nuovi pozzi, magari in aree sensibili dal punto di vista ambientale. “Quello che facciamo può avere un impatto economico importante per le aziende petrolifere, che possono ottimizzare gli investimenti, e contemporaneamente è vantaggioso in termini ambientali”, conclude Juanes. Sarà il MIT a partorire il futuro del globo?