Sono stato a Cuba svariate volte a partire dal 1996, per lavoro (convegni, incontri, festival letterari, esperienza di giurato nel premio Calvino-Cuba) e una volta ho “rischiato” di cenare con Fidel (ovviamente con altre 50 persone!). Poi lui era indisposto e saltò tutto. Peccato, avrei voluto avvicinarlo – attraverso la mediazione dell’allora ministro della Cultura, lo scrittore Abel Prieto (che conoscevo bene) – e fargli una domanda: “Signor Presidente, Comandante, credo che alla politica occorra chiedere di semplificarci la vita e alla letteratura di complicarla…Quando avviene il contrario è un disastro”.
Mi premeva la sua risposta perché ero stato un simpatizzante della Revolucion, poi però fatalmente deluso dalla sua deriva burocratico-autoritaria. Immagino che Castro – ammesso che si fosse lasciato avvicinare – mi avrebbe dato una risposta sottile, brillante, magari secca, certo non elusiva né formale. Perché era un leader politico colto, affabile, educato dai gesuiti, brillante, con il gusto della battuta e l’amore per la dialettica.
Gli piaceva leggere i romanzi, in particolar modo. Quando volle incontrare Garcia Marquez, di cui diventò amico, si dice che passò la notte prima a leggere “Cent’anni di solitudine”, e ne fu turbato. In seguito lesse anche l’ “Autunno del patriarca”, grande narrazione epica sul potere, e sulla solitudine di un despota caraibico legato alla cultura rurale, a cui non dovette sentirsi del tutto estraneo.
La sua fu vera gloria? Stavolta non dobbiamo lasciare interamente ai posteri l’ardua risposta. In Castro si rispecchiano le contraddizioni di un subcontinente nato dalla “Conquista”, dunque anche dalla violenza, ma a tratti capace di inventare soluzioni politiche nuove, sperimentali, fantasiose. Sul conto di Castro pesano le epurazioni, i delitti misteriosi “di corte”, i dissidenti e omosessuali perseguitati, il peso esorbitante della nomenclatura (esposta alla corruzione), il familismo smaccato nella gestione del potere, le scelte dissennate in economia. Ma anche: l’unica rivoluzione vittoriosa in Sudamerica contro l’imperialismo, e poi la sanità e istruzione gratuite (Cuba esportava maestri contro petrolio in Venezuela), la capacità di rivitalizzato l’orgoglio di un popolo (comunque amabile), la garanzia di una sicurezza pubblica nelle città (fatto unico nei paesi d’oltreoceano), la vivacità della vita culturale, e aggiungo una certa allegra spavalderia, una leggerezza quasi signorile di tocco pur dietro la ruvidezza della divisa verde-oliva.
Mi soffermo solo sulla passione per i romanzi (lungo la via principale dell’Avana troneggia un monumento di ferro a don Chisciotte). Probabilmente Fidel Castro ricavava dalla letteratura, che nei paesi latino-americani gode ancora di una centralità per noi impensabile, una capacità di empatia, l’attitudine a immedesimarsi negli altri, una visione infine più saggia, perché consapevole del fatto che niente di ciò che è umano ci è estraneo.